foto di Elena Fiorio - Burano maggio 2009
“Il grande libro delle frittate”
8 luglio 2018

di Morello Pecchioli e Monica Sommacampagna
Estratti dal capitolo: Elogio alla frittata.

E' la Cenerentola delle pietanze, la Cinderella dell'Italian Food. Ha tutto per piacere: è buona, bella, compiacente e sempre disponibile, soprattutto all'ultimo momento. Basta avere un paio d'uova a disposizione. "Caro, cosa cuciniamo per questa sera a cena? Non c'è niente in frigo, a parte due uova e una mezza salsiccia. Ce la facciamo una frittatina?" (...)
Il menu dei ristoranti, invece, da quelli stellati alle trattorie, la ignorano. I libri di ricette - non tutti, ma quasi - idem. La tradizionale, gustosa, umile, povera frittata all'italiana non riesce a oltrepassare le pareti della cucina di casa. Nè, tantomeno, arriva a valicare i confini della patria cucina. Ma se lo spazio le mette i paletti, se la geografia non le rende giustizia, il tempo al contrario, ne proclama le virtù gastronomiche, e la storia testimonia la sua antica bontà, le riconosce i gustosi meriti, grazie ai quali ha soddisfatto generazioni di palati, sfamato e nutrito sostanziosamente gente di ogni stirpe e di ogni altra etnia (un'infinità) che ha calcato il suolo del Buon Paese.

L'omelette è francese, transalpina. E' nata aristocratica, tra le Tuileries e la reggia di Versailles. Ha la puzzetta sotto il naso. La frittata nostra, invece, è popolare. L'effluvio della fortàgia con le cipolle si espande tra le calli di Venezia e, avvolta nella carta gialla del formaggio, va in gondola con Toni, Bepi e Alvise. L'odorino si scamorza affumicata della frittàt di maccheroni alla napoletana invade i quartieri spagnoli della città partenopea. L'aroma del grana con gli spinaci della fritada milanese si confonde con la nebbia sui Navigli. Il profumo del basilico della frità col pesto alla genovese s'infila negli stretti carrugi del capoluogo ligure. La fragranza della frittata romanesca alla burina si diffonde da Trastevere al ghetto romano fino a intrufolarsi, mescolata con l'odore dell'incenso, nei palazzi vaticani. E' una frittata contadina, ma degna di un papa. (...)
L'omelette soffre di qualche complesso freudiano. La frittata, invece, è solare, ha un carattere espansivo, socializza. E' popolana.
L'omelette viene cotta da un solo lato. La frittata su entrambi, rivelando, anche in questo, la sua italianissima origine. Non siamo, forse, noi italiani, maestri nel rivoltare la frittata?



Frittatona di cipolle e rutto libero...

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“La tela del Doge” di Paolo Forcellini
9 dicembre 2016

Intrippata dalla serie Italia Noir della biblioteca di la Repubblica-l'Espresso...

In realtà il Porta a porta del mellifluo Vespa gli serviva solo come sottofondo alle sue meditazioni riguardanti, quella sera come quasi tutte le altre negli ultimi sei mesi, la separazione dalla moglie Regina, quotato medico del reparto di oncologia dell'Ospedale Civile.
(...) da quando la consorte l'aveva mollato e se n'era andata a vivere per conto suo, il commissario aveva cominciato ad alzare il gomito quasi tutte le sere: la tristezza, l'angoscia, lo assalivano nella casa orfana delle chiacchiere reginesche.
Gli mancavano gli apprezzamenti immeritati e i rimproveri garbati della moglie. E sentiva nostalgia delle passeggiate domenicali con lei lungo le rive del Canale della Giudecca e di quelle serali, quando Regina lo andava a prendere in ufficio, in Fondamenta S. Lorenzo. Attraversando la Venezia delle boutique lussuose e degli ambulanti africani, facevano una lunga camminata fino alle Zattere per poi imbarcarsi sul vaporetto.
Aveva nostalgia delle cenette in due, a casa o nelle trattorie circostanti, come quelle estive all'Altanella, affacciata sul Rio del Ponte Longo, o all'Harry's Dolci, in Fondamenta S. Biagio.
E poi, o forse prima ancora, gli mancavano il suo corpo, i suoi abbracci, i suoi fremiti.
Così Manente ora aveva bisogno di stordirsi, di allontanare la disperazione che si faceva strada dentro di lui. L'alcol gli pareva la medicina maggiormente efficace, con in più la proprietà di concedergli qualche ora di sonno pesante che ormai da sobrio era sempre più improbabile.

«(...) Dunque, Furlan mi ha riferito che Bruscagnin e la Scarpa hanno mangiato verso le 13 risotto di pesce e bisato in tecia, acquistati alla rosticceria di Calle della Bissa. Piatti non proprio di facilissima assimilazione. Ho però potuto verificare che il processo digestivo era pressoché ultimato nel momento in cui Bruscagnìri è stato ucciso: questo elemento, assieme alla temperatura e alla rigidità del corpo, mi portano a concludere che la morte è avvenuta intorno alle 17, mezz'ora più, mezz'ora meno. Più preciso di così... Sono certo che mi farai avere al più presto l'encomio solenne che merito.»
«Certamente, Alvise, l'ho appena controfirmato. E sappi che il questore, su mia proposta, ha anche acconsentito che alla prima occasione ti accompagni all'American Bar di Piazza S. Marco per un Negroni. Offri tu, naturalmente. Ciao ciao.»

Invece che rientrare al commissariato, Manente attraversò il ponte che vi sorgeva dirimpetto e si recò nel suo pensatoio preferito: Campo S. Lorenzo. Una sorta di ampia enclave, attraversata solo da pochissimi abitanti dei dintorni, da qualche vecchietto che coraggiosamente usciva con la badante dalla residenza per anziani che vi si affacciava e da turisti rari come mosche bianche.
In fondo al campo sorge, maestosa, la Chiesa di S. Lorenzo, antichissima, rifatta nel Cinquecento, incompiuta e danneggiata dalla Grande Guerra. Chiusa al culto perché diroccata e utilizzata come magazzino, è preceduta da una breve scalinata dove Manente amava sedersi a pensare nelle giornate soleggiate, con la sola compagnia di qualche micio uscito a crogiolarsi agli amati raggi da una sorta di condominio, fatto di cucce di legno affiancate e accatastate su più piani, tutte ben fornite al loro interno di ceste e copertine per combattere il freddo, che qualche anima buona di gattara aveva poco a poco costruito sul sagrato per gli homeless felini del circondario.

www.repubblica.it/italia-noir

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El fanfarniche e la granita in man
24 settembre 2016

Estratti dal libro "Chi xé mona, staga a casa!" di Espedita Grandesso sottotitolato: detti, insulti e prese in giro.

EL FANFARNICHE. Il dolce in oggetto ha più denominazioni, ma ricordo solo questa; consisteva in una treccia composta da zucchero di canna e melassa, lunga un dito e grossa, forse, un poco di più. Era un dolce durissimo, che noi bambini di allora consumavamo succhiandolo lentamente, fino ad avere le labbra e la lingua infiammate, per poi sgranocchiarlo, una volta che la massa si fosse ridotta, grazie ai nostri denti che facevano concorrenza a quelli dei molossi. (...) Questo dolce esiziale ha fatto parte della mia infanzia e di quella di tanti altri bambini: ci ha spinto a sgraffignare qualche lira per raggiungere la quota di dieci (tanto costava un pezzo di quella robaccia); ci ha spinto a mentire alle nostre "sante mamme" (erano definite così durante l'ora di catechismo) (...)
Sfuggendo all'occhiuta attenzione di mia madre che, apprensiva ma dotata di buon senso, a volte mi lasciava uscire con altre quattro o cinque bambine conosciute, ho potuto assistere alla "creazione del fanfarniche".
In campo Santa Margherita, nei giorni di mercato, arrivava un signore rivestito di un grembiule bianco pieno di macchie multicolori, col suo meraviglioso carretto, che si smontava e rimontava fino a fargli assumere la forma di un banco da vendita, con annessa vetrinetta contenente vari dolci, sempre rigorosamente a base di zucchero: croccanti, frutta caramellata, caramelle e mosche (quelle entravano nella vetrinetta "motu proprio" e il padrone faceva l'atto di cacciarle, ma poi si rassegnava, avendo altro da fare).
Dall'interno del carretto l'omino (era, infatti, un signore di bassa statura) estraeva un treppiedi di ferro e un calderone che poneva sul treppiedi e riempiva con un secchio d'acqua, sotto al treppiedi accendeva un fuoco vivo di legna aiutandosi, credo, con uno spruzzo d'alcol o di benzina. Quando all'interno della caldaia l'acqua bolliva, il "mago del fanfarniche" ci versava sopra della melassa e dello zucchero grezzo, poi afferrava un mestolo di legno e cominciava a girarlo e rigirarlo nella massa sempre più compatta e collosa. (...)
Quando la massa nel calderone aveva raggiunto la giusta consistenza e un colore bruciato e dorato, molto simile a quello dell'avventurina, il mago, armato di due pezzi di vecchia coperta, toglieva la caldaia dal fuoco, che spegneva con i piedi, calzati in zoccoli di legno pesante, e versava il contenuto sul ripiano di zinco del famoso carretto multiuso. A questo punto avveniva qualcosa d'impensabile: il mago afferrava destramente quella massa infuocata e la lanciava contro un gancio attaccato a un'asse verticale, annessa al suo trabiccolo, la stirava e la intrecciava, lanciandola e rilanciandola fino a farle assumere lo spessore voluto. Ogni tanto, per non scottarsi troppo o per rendere i palmi scivolosi, si sputava nelle mani e riprendeva con lena e rapidità la lavorazione della treccia di zucchero.
Quando la treccia aveva raggiunto il giusto spessore, la toglieva dal gancio, la posava sul ripiano di zinco e, prima che s'indurisse troppo, la tagliava con un coltellaccio da macellaio in tanti pezzetti, miracolosamente uguali, dopo di che posava i pezzi di fanfarniche su un vassoietto e li metteva nella vetrina, assieme all'altra mercanzia: un pezzo di quel dolce costava dieci lire, gli altri troppo di più. Il farfarniche aveva una parte notevole nella nostra vita spirituale di bambine cattoliche, perché era motivo non irrilevante delle nostre confessioni nel settore "bugie" e "peccati di gola".

LA GRANITA IN MAN. Altro motivo di contenzioso con le "sante mamme" (e nella maggior parte dei casi lo erano davvero, povere donne) era la granita in man, un peccato di gola estivo, non meno perseguito del fanfarniche.
La bancarella delle granite spuntava verso giugno su una fondamenta dietro a quella dove abitavo e rimaneva lì per tutta l'estate, almeno fino a settembre. La gestiva una signora né vecchia né giovane: una madre di famiglia, che aveva trovato il modo di arrotondare le entrate o di supplire alla disoccupazione del coniuge.
Anche in questo caso la bancarella era alquanto imponente, perché nelle pieghe riposte del suo ventre doveva starci una piccola ghiacciaia, una scorta di bottiglie d'aranciata, limonata e birra e chissà che altro. Un vetro divideva dagli avventori le bottiglie con gli sciroppi, i bicchieri e una serie di cucchiaini contenuti in un bussolotto di alluminio, mentre una piccola macchina azionata a mano serviva per grattare il ghiaccio: il tutto era sormontato da una tenda a righe, mentre la padrona, quando non c'erano clienti, leggeva Bolero o Grand Hotel su una sedia impagliata, portata da casa.
È probabile che il grosso delle entrate provenisse alla signora dalla vendita delle granite, che erano varie di prezzo e dimensioni: c'erano le granite da venti lire, riservate alle ragazze grandi, che se le facevano offrire dal "moroso", ed erano servite in lunghi bicchieri da bibita.
Quando avevamo ricevuto la paghetta o una mancia, anche noi bambine acquistavamo una granita da venti, ma non nel bicchiere grande, perché al posto della quantità di ghiaccio "da venti lire" chiedevamo tre diversi tipi di sciroppo fortemente colorato. Infatti, non consideravamo lo sciroppo per il suo sapore, bensì per il suo colore; la triade rosso-blu-giallo significava - più o meno - il mélange di sapori al lampone (o all'amarena), all'anice e alla banana: era una cosa indegna ma, poiché i colori ci sembravano belli e brillanti, mandavamo giù tutto senza battere ciglio. Sopravvissute alla guerra, le granatine di sapore vomitevole non ci facevano nessun effetto.
Le dieci lire davano diritto alla quantità di ghiaccio tritato contenuta in un bicchiere da vino e a due soli colori: la padrona, su questo punto, era irremovibile perché, se avesse ceduto a sganciare un solo pelino di un terzo colore a una bambina, tutte le altre l'avrebbero tormentata per il rimanente della sua vita.
Bicchieri e cucchiai usati venivano messi dentro una mastelletta di zinco con acqua e varechina e posti a sciacquarsi dentro un altro contenitore smaltato, direttamente sotto il getto della fontana pubblica poco distante. Ma c'era di peggio; visto che spesso non avevamo neppure le dieci lire, ma solo cinque, la fantasiosa signora, un po' per pietà, un po' per rapinarci anche quelle, si era inventata un nuovo sistema di servire la granita: riempiva un bicchiere piccolo di ghiaccio nel quale versava un solo sciroppo (le cinque lire, infatti, davano diritto a un solo colore) e poi ci sformava la granatina direttamente in mano.
Ecco: quella da cinque lire era la famosa granita in man, tanto vanamente perseguita dalle mamme, giustamente preoccupate che non ci prendessimo il colera, ma non tanto avvedute - o possidenti - da rifilarci qualcosa di più di quelle misere cinque lire. (...)
Succedeva così che, depositate le nostre cinque lire sul banco, occupavamo un po' di tempo a saltare come capre per non sbrodolare sul grembiulino la granita che si scioglieva, passando in fretta il ghiaccio sciroppato da una mano all'altra, succhiando disperatamente perché quelle preziose cinque lire non finissero per terra in tante goccioline d'acqua colorata; dopo, andavamo in fila indiana (mica tanto, ci rifilavamo certi spintoni per arrivare prime) alla fontana pubblica, per lavarci le mani e il muso impiastricciati di sciroppo, asciugandoci le mani sul lembo del grembiule di tela.
Anche la granita in man, per quanto ricordo, al sabato diventava oggetto di confessione, come lo era stato, nelle altre stagioni, il famigerato fanfarniche.

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Ricetta: tramezzino veneziano tonno e cipolline
18 settembre 2016

Tra tutti i tramezzini per me il più veneziano in assoluto è quello con tonno e cipolline...

Tramezzino veneziano tonno e cipolline

4 fette quadrate di pane per tramezzini senza crosta
200 gr. di tonno a filetti sott'olio
3 cucchiai di cipolline perline sott'aceto
1 patata lessa piccola a pasta bianca (facoltativa)
maionese allo yogurt


Sciacquare le cipolline perline (quelle bianche piccole piccole) e farle scolare.
Sminuzzare con una forchetta i filetti di tonno ben sgocciolati dall'olio e la patata lessa. Unire le cipolline intere e mescolare il ripieno.
Spalmare tutte le fette di pane con uno strato omogeneo di maionese avendo cura di coprire anche la parte perimetrale delle stesse.
Posizionare una generosa dose di ripieno al centro di quattro fette lasciando i bordi liberi per almeno un centimetro poi appoggiare sopra le quattro fette rimanenti.
Se necessario, vaporizzare i tramezzini con dell'acqua poi modellare con le mani il pane a forma di cupola sul ripieno schiacciando bene i lati in modo che si sigillino. Tagliare ogni fagottino con un coltello molto affilato in diagonale.
Tenere i tramezzini sino al momento di servire sotto uno strofinaccio umido e se si vogliono conservare più a lungo in frigorifero avvilupparli uno a uno nella pellicola.

Il tramezzino veneziano deve rispettare alcune regole: l'uso di pane per tramezzini senza crosta con doppia lievitazione a fermentazione naturale, la presenza non invasiva di un'ottima maionese leggera e il trionfo di un ripieno generoso che permetta di ottenere la caratteristica forma panciuta "a sorriso".
Inutile dire che il clima umido di Venezia è perfetto per avere un tramezzino ultramorbido.


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Ricetta: bigoli al radicchio in salsa di acciughe
5 settembre 2016

Aria di Venezia...


Bigoli al radicchio in salsa di acciughe

400 gr. di bigoli al radicchio rosso (Sgambaro)
12 acciughe sotto sale
2 cipolle bianche
olio extravergine d'oliva
vino bianco (facoltativo)
prezzemolo


Dissalare e diliscare le acciughe.
Affettare molto sottilmente le cipolle e metterle in una larga padella con l'olio extravergine d'oliva, cuocerle dolcemente coperte per almeno mezz'ora aggiungendo, poco alla volta, qualche cucchiaio d’acqua fino a quando sono trasparenti e morbide.
Aggiungere i filetti d'acciuga e mescolare con cura in modo che si sciolgano del tutto sino a formare con le cipolle un condimento cremoso. Unire a piacere poco vino bianco.
Lessare i bigoli in abbondante acqua leggermente salata, scolarli al dente e versarli nella padella. Mescolare bene aggiungendo, se necessario, un po’ d’acqua di cottura della pasta poi spolverizzare con prezzemolo tritato.
Servire aggiungendo un giro d'olio extravergine d'oliva a crudo.

Il condimento è quello dei famosi "bigoli in salsa" veneziani, piatto di magro servito tradizionalmente alla vigilia di Natale. Una variante molto apprezzata prevede una mantecatura finale con burro crudo che crea una particolare cremosità.

Bigoli: prodotto della tradizione contadina del Veneto in uso fin dai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia. E' una pasta lunga, simile a un grosso spaghetto, di farina tenera o di grano duro realizzata con un torchio speciale che lascia la superficie ruvida. I bigoli mori sono ottenuti con farina integrale o di segale.


"Venezia e i suoi sapori" scritto e illustrato da Sally Spector

www.sgambaro.it

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Proverbi, parole e parolacce veneziane e venete
31 agosto 2016

Estratti dal libro "Prima de parlar, tasi" di Espedita Grandesso sottotitolato: proverbi, parole e parolacce da non dimenticare.

Xe come butar in tera un omo che caga.
(E' come buttare per terra un uomo che sta facendo la cacca.)
Frase che illustra un'azione platealmente indegna.

A mi del ti, che gò un zio prete?
(Dare a me del tu, che ho uno zio prete?)
Frase ironica volta a tenere le distanze tra sè e gli altri.

Che ciavada che ciapa i frati, se no ghe xe el paradiso!
(Che fregatura prendono i frati, se non c'è il paradiso!)

E mi cossa sogio, la merda dei vigili?
(E io cosa sono, la merda dei vigili?)
Frase risentita di chi si sente valutato meno di niente.

Brava gente, sior comandante, ma la roba manca!
(Brava gente, signor comandante, ma qualcosa manca!)
Frase scherzosa, perla di diplomazia.

L'abondansa stufa e la carestia fa fame.
(L'abbondanza stanca e la carestia affama.)
Frase che indica che l'essere umano non è mai contento.

L'aqua marsisse i pali.
(L'acqua marcisce i pali.)
Bere acqua, al posto del vino, danneggia l'organismo.

Domandighe a l'osto se'l gà bon vin.
(Chiedi all'oste se ha vino buono.)

In ostaria no vago, ma co ghe sò ghe stago.
(In ostaria non vado, ma quando ci sono ci resto.)

Se varda el Signor, se varda la Madona, se varda anca chi ghe gà un muso da mona.
(Si guarda il Signore, si guarda la Madonna, si guarda anche chi ha una faccia da pirla.)
Frase rivolta a chi si infastidisce se si accorge di essere osservato.

Fradeli in Cristo, ma no in torta.
(Fratelli in Cristo, ma non in torta.)
Frase che sottolinea l'egoismo di persone che si definiscono buoni cristiani.

I sogni xe parenti dele scorese.
(I sogni sono parenti delle scorregge.)

Ogni pan gà la so crosta.
(Ogni pane ha la sua crosta.)

Essere andà parsuto e esser tornà salame.
(Essere partito prosciutto e essere tornato salame.)
Frase che indica un insuccesso non previsto.

Gnanca el can no mena la coa par gnente.
(Neanche il cane scodinzola per niente.)

Va a cagar su le suche marine de Cioza.
(Vai a cagare sulle zucche marine di Chioggia.)
Invito a defecare su qualcosa di estremamente spinoso.

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Ricetta: vulcani di polenta bianca con alici piccanti
24 agosto 2016

Uno dei rari casi in cui accetto la scorciatoia della polenta istantanea...

Vulcani di polenta bianca con alici piccanti

500 gr. di farina di mais bianco per polenta istantanea
1,5 l. d'acqua
3 scatolette di filetti di alici in salsa piccante Rizzoli da 90 gr.
olio extravergine d'oliva
sale grosso


Procurarsi 12 pirottini a tronco di cono (vanno bene anche quelli monouso in alluminio) e oliarli utilizzando un pennello in silicone.
Portare a bollore l'acqua nel paiolo poi aggiungere un cucchiaio scarso di sale grosso. Fuori dal fuoco versare a pioggia la farina mescolando inizialmente con una frusta e successivamete con un bastone di legno in modo da impedire la formazione di grumi.
Riportare il paiolo sul fuoco e rimestare ancora per qualche minuto sino a ottenere una polenta molto consistente.
Riempire sino all'orlo tutti i pirottini pressando bene la polenta poi lasciare intiepidire a temperatura ambiente. Capovolgere i pirottini e formare sulla sommità di ogni vulcano con un cucchiaino un incavo abbastanza fondo da contenere due alici arrotolate e un po' di salsa piccante.
Mettere i vulcani così preparati in una teglia leggermente oliata e infornante a 220° per una decina di minuti.
Servire caldi e... ancora in eruzione!

Per una versione meno scenografica ma decisamente più veloce versare la polenta direttamente nella teglia e dividerla, quando intiepidita, in dodici quadrotti con i relativi incavi per le alici.

La polenta bianca tipica della cucina veneta (in particolare nelle province di Venezia, Treviso e Padova) si ottiene utilizzando la farina del mais biancoperla più raro e costoso del mais giallo e di colore bianco. Più delicata e a grana più fine della polenta gialla viene solitamente preparata di consistenza morbida e abbinata a condimenti a base di pesce, frutti di mare e crostacei.



www.molinodiferro.com
www.rizzoliemanuelli.it

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“Il morso della lucertola” di David Hewson
20 marzo 2013

Molto bella questa ambientazione lagunare...

"Bella" mormorò tra sè, e rimase sconvolto da quanto suonasse vecchia e roca la sua stessa voce. Uriele Arcangelo aveva quarantanove anni. Una vita passata a lavorare di notte nella fornace, quella maledetta e amata fornace, con il fuoco che gli spezzava le vene delle guance indurite, gli aveva conferito la carnagione e l'aspetto spento e depresso di un vecchio.

II lavoro teneva Scacchi sull'acqua, posto che piaceva sia a lui che al suo cane, lontano da Venezia con i suoi vicoli oscuri e gli esseri umani ancora più oscuri. Era cresciuto sulla laguna, nella fattoria isolata che sua madre gli aveva lasciato in eredità dieci anni prima. Quando Scacchi si trovava lì, o sulla sua barca, si sentiva a casa, al sicuro dalla città e dai suoi pericoli. (...)
Nonostante la sua vita appartata o, forse, proprio a causa di essa, era un uomo loquace ed espansivo, a cui piaceva bere e scherzare con i suoi simili. Non tornava mai a casa in barca dai giri mattutini al mercato di Rialto completamente sobrio.

Uriele Arcangelo lavorava lì da quando aveva dodici anni. Il procedimento gli era così familiare che ormai non ci pensava quasi più. Intorno alle cinque di un pomeriggio di lavoro, era solito aggiungere legna e alzare il bruciatore a gas a 1250 gradi centigradi prima di collocare nel forno il primo ammasso grezzo. Nelle prime ore della sera, lui o Bella tornavano di quando in quando a controllare che la temperatura salisse costantemente a 1400 gradi, aggiungendo legna secondo le istruzioni di suo padre, finchè la fornace non era abbastanza calda da eliminare tutte le bolle del vetro. Poi, verso le tre, Uriele, e lui soltanto, in qualità di omo de note, faceva l'ultimo giro e iniziava ad abbassare gradualmente la temperatura. Entro le sette del mattino, il vetro che aveva creato sarebbe stato sufficientemente malleabile perché Gabriele potesse iniziare a foggiare i singoli calici e vasi costosi che recavano il marchio della fonderia, un angelo scheletrico, sulla base.
Nulla che avesse visto nei decenni di scrupoloso lavoro notturno lo aiutò a spiegare quanto gli si trovava davanti adesso: una fornace che stava diventando inspiegabilmente ingovernabile.

L'incendio era spento, domato da una marea di acqua e schiuma. Era stata conseguita una specie di vittoria, troppo tardi per Uriele Arcangelo, ma in tempo per salvare la sua famiglia, quel clan isolato che adesso, pensò Scacchi, si sarebbe radunato per appurare le conseguenze della tragedia strana e inspiegabile che si era consumata nella notte, portando una morte infuocata a due passi da casa loro.

"Non possiamo permetterci San Michele!" gridò al suo indirizzo, non riuscendo a controllare le emozioni. "Le pompe funebri vogliono soldi, non promesse. Nessuno ci fa più credito. Non capisci?" (...)
Michele Arcangelo si diresse verso una vetrinetta ed estrasse uno degli oggetti più preziosi contenuti al suo interno. Si trattava di un vaso del XVI secolo a forma di galea, un pezzo bellissimo, con la carena di vetro trasparente e il sartiame blu. Su un lato era apposto il sigillo della fornace dei Tre Mori, garanzia che avrebbe spuntato un buon prezzo ovunque. Lo possedevano da sempre, o così le sembrava. Angelo, in particolare, lo adorava, ed era per questo che non l'avevano venduto fino ad allora.
Michele si rigirò l'oggetto prezioso tra le mani, ammirandolo con un occhio acuto, professionale.
"Allora seppelliscilo con questo" disse senza nemmeno una traccia di emozione.

"Glielo dico io. Lavorano in un museo. Quella stupida vecchia fornace, dieci volte più grande del necessario. Non hanno attrezzature moderne, nulla che gli permetta di risparmiare tempo o denaro. Usano tutte quelle vecchie ricette e quei vecchi modelli. Ci mettono il quadruplo del tempo rispetto a noi altri per produrre cose che, agli occhi di quasi tutto il mondo esterno, sono esattamente identiche. Credete che spunteranno un prezzo quadriplo? No. Nemmeno doppio. A volte neppure lo stesso prezzo, perchè vendono roba vecchia. Modelli superati da anni. Con imperfezioni, perché il vecchio sistema comporta imperfezioni e nessuno si beve che in realtà sono soltanto caratteristiche tipiche, nient'altro. Sapete qual'è il loro genere? Il fallimento, ecco qual'è.

Enzo si sbagliava. La notte scese lentamente su Venezia, come faceva alla fine di ogni bella giornata limpida, con un tramonto così incantevole da sembrare irreale, una lunga ora di splendore dorato che intrappolava la città sull'acqua nell'ambra fulgida.

"Non è affrettata. E' da anni che desidero andarmene. Il fatto è che mi sentivo legata a quella stupida isola e ai ridicoli sogni di Michele. Si crede una specie di eroe perchè si attiene ancora ai vecchi sistemi. Cerca di mantenere in vita un antico mestiere artigianale quando tutti gli altri producono solo paccottiglia per i turisti. E' un'illusione. Ho passato qui tutta la vita e vedo cosa sta diventando Venezia. Un cimitero, bello, devo ammettere, ma pur sempre un cimitero. Finisce per prosciugarti delle forze. E' quanto è già capitato a Michele, ma lui resterà qui ignorando la realtà finchè non lo logorerà. Io no."

"Veneziani! Veneziani! Fissate il prezzo e facciamola finita. Un uomo come me ha già comprato tipi come tutti voi. Comprerò di nuovo tutti voi, due volte, se sarà necessario."
Piero Scacchi non si mosse, nè distolse lo sguardo dall'inglese tronfio intrappolato contro il vetro luccicante.
"Ha commesso due errori" disse. "Io non sono veneziano. E lei non è un uomo."

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Spritz
3 marzo 2012

Mi fa piacere vedere che lo spritz è arrivato anche a Busto Arsizio ma bevuto a Venezia resta un’altra cosa…

E' scoccata l'ora dello spritz. Un aperitivo con una vecchia storia alle spalle ha conquistato adesso anche i milanesi.

E’ un cocktail di origine austroungarica, nato dalla semplice miscela di acqua frizzante e vino bianco. Il nome deriva dal verbo tedesco spritzen che significa spruzzare. Affermatosi nei bar del Triveneto, ha modificato la sua ricetta d’origine: l’acqua è diventata selz e il vino bianco prosecco o spumante ma si è soprattutto aggiunto almeno un terzo ingrediente alcolico oltre all’oliva verde infilzata del lungo stuzzicadente e la fetta d’arancia o limone sul bordo del bicchiere.

Per la sua natura popolare e per la connotazione regionale, lo spritz ha faticato ad affermarsi ma oggi si fa largo tra i buffet dell’aperitivo, mettendo d’accordo gli amanti del vino e quelli dei cocktail, collocandosi a metà strada per gusto e consistenza alcolica.

Le versioni più diffuse sono quelle colorate di arancio rosso con Aperol o Bitter Campari (oppure Select quasi esclusivamente nella città di Venezia) ma lo spritz è proposto anche con la China Martini o il Cynar.

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Cooperativa Rio Terà dei Pensieri
6 novembre 2011

Il mio nuovo sacchetto portatutto in tela Spritz Venezia (con tanto di ricetta)… e una bella storia da raccontare…

Nell'autunno 1994 detenuti e volontari costituiscono la Cooperativa Sociale Rio Terà dei Pensieri a Venezia.

I due fondatori, uno da una parte e uno dall'altra del tavolo del parlatorio del carcere, realizzano una "alternativa allo stare in branda in cella".

Il progetto parte nella Casa Circondariale Maschile S. Maria Maggiore, senza un ufficio ne una segretaria ma solo un telefono e tanta voglia di lavorare silenziosamente sei giorni su sette. Le attività si sviluppano, con il tempo, attorno a due fulcri principali e fondamentali: la formazione professionale e la produzione di manufatti.

Oggi la struttura della Cooperativa si è adeguata all'incremento delle attività con un ufficio e del personale assunto seppure il contributo del lavoro volontario sia ancora indispensabile.

La Cooperativa adesso opera nella Casa Circondariale Maschile S. Maria Maggiore (dove sono attivi i laboratori di serigrafia, taglio del vetro per mosaico, pelletteria, sartoria, assemblaggio e i corsi di formazione professionale di editoria elettronica, serigrafia, pelletteria, sartoria) e nella Casa di Reclusione per Donne della Giudecca (dove sono attivi i laboratori di orto, cosmesi, legatoria, calzoleria e i corsi di formazione professionale di orticoltura, cosmetica, legatoria, calzoleria).

Alla Cooperativa Sociale Rio Terà dei Pensieri di Venezia producono cosmetici, articoli in cuoio e pelle, simpaticissime magliette e borse in tela serigrafate e originali borse realizzate con i manifesti in PVC realizzati per pubblicizzare gli eventi della cittàa.

Nel progetto "Malefatte... di città di Venezia" (ideato dall’art director Fabrizio Olivetti) un rifiuto vero e proprio, come il manifesto in PVC, viene completamente riutilizzato con estro artistico, impegno sociale e tanta ironia. Le borse, pezzi unici creati a mano, diventano un ricercato fenomeno di moda.

"Malefatte... di città di Venezia" affianca i altri progetti “Design in gabbia” sempre della Cooperativa Sociale Rio Terà dei Pensieri.

I prodotti si trovano in vendita diretta nel negozio di Calle Zancana Cannaregio 2433, nel chiosco in Campo S. Stefano e altri chioschi itineranti a Venezia e Mestre. Sono inoltre presenti presso parecchi rivenditori sia a Venezia che a Mestre (per l’elenco completo consultare il sito).

www.rioteradeipensieri.org

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