foto di Elena Fiorio - Burano maggio 2009
El fanfarniche e la granita in man
24 settembre 2016

Estratti dal libro "Chi xé mona, staga a casa!" di Espedita Grandesso sottotitolato: detti, insulti e prese in giro.

EL FANFARNICHE. Il dolce in oggetto ha più denominazioni, ma ricordo solo questa; consisteva in una treccia composta da zucchero di canna e melassa, lunga un dito e grossa, forse, un poco di più. Era un dolce durissimo, che noi bambini di allora consumavamo succhiandolo lentamente, fino ad avere le labbra e la lingua infiammate, per poi sgranocchiarlo, una volta che la massa si fosse ridotta, grazie ai nostri denti che facevano concorrenza a quelli dei molossi. (...) Questo dolce esiziale ha fatto parte della mia infanzia e di quella di tanti altri bambini: ci ha spinto a sgraffignare qualche lira per raggiungere la quota di dieci (tanto costava un pezzo di quella robaccia); ci ha spinto a mentire alle nostre "sante mamme" (erano definite così durante l'ora di catechismo) (...)
Sfuggendo all'occhiuta attenzione di mia madre che, apprensiva ma dotata di buon senso, a volte mi lasciava uscire con altre quattro o cinque bambine conosciute, ho potuto assistere alla "creazione del fanfarniche".
In campo Santa Margherita, nei giorni di mercato, arrivava un signore rivestito di un grembiule bianco pieno di macchie multicolori, col suo meraviglioso carretto, che si smontava e rimontava fino a fargli assumere la forma di un banco da vendita, con annessa vetrinetta contenente vari dolci, sempre rigorosamente a base di zucchero: croccanti, frutta caramellata, caramelle e mosche (quelle entravano nella vetrinetta "motu proprio" e il padrone faceva l'atto di cacciarle, ma poi si rassegnava, avendo altro da fare).
Dall'interno del carretto l'omino (era, infatti, un signore di bassa statura) estraeva un treppiedi di ferro e un calderone che poneva sul treppiedi e riempiva con un secchio d'acqua, sotto al treppiedi accendeva un fuoco vivo di legna aiutandosi, credo, con uno spruzzo d'alcol o di benzina. Quando all'interno della caldaia l'acqua bolliva, il "mago del fanfarniche" ci versava sopra della melassa e dello zucchero grezzo, poi afferrava un mestolo di legno e cominciava a girarlo e rigirarlo nella massa sempre più compatta e collosa. (...)
Quando la massa nel calderone aveva raggiunto la giusta consistenza e un colore bruciato e dorato, molto simile a quello dell'avventurina, il mago, armato di due pezzi di vecchia coperta, toglieva la caldaia dal fuoco, che spegneva con i piedi, calzati in zoccoli di legno pesante, e versava il contenuto sul ripiano di zinco del famoso carretto multiuso. A questo punto avveniva qualcosa d'impensabile: il mago afferrava destramente quella massa infuocata e la lanciava contro un gancio attaccato a un'asse verticale, annessa al suo trabiccolo, la stirava e la intrecciava, lanciandola e rilanciandola fino a farle assumere lo spessore voluto. Ogni tanto, per non scottarsi troppo o per rendere i palmi scivolosi, si sputava nelle mani e riprendeva con lena e rapidità la lavorazione della treccia di zucchero.
Quando la treccia aveva raggiunto il giusto spessore, la toglieva dal gancio, la posava sul ripiano di zinco e, prima che s'indurisse troppo, la tagliava con un coltellaccio da macellaio in tanti pezzetti, miracolosamente uguali, dopo di che posava i pezzi di fanfarniche su un vassoietto e li metteva nella vetrina, assieme all'altra mercanzia: un pezzo di quel dolce costava dieci lire, gli altri troppo di più. Il farfarniche aveva una parte notevole nella nostra vita spirituale di bambine cattoliche, perché era motivo non irrilevante delle nostre confessioni nel settore "bugie" e "peccati di gola".

LA GRANITA IN MAN. Altro motivo di contenzioso con le "sante mamme" (e nella maggior parte dei casi lo erano davvero, povere donne) era la granita in man, un peccato di gola estivo, non meno perseguito del fanfarniche.
La bancarella delle granite spuntava verso giugno su una fondamenta dietro a quella dove abitavo e rimaneva lì per tutta l'estate, almeno fino a settembre. La gestiva una signora né vecchia né giovane: una madre di famiglia, che aveva trovato il modo di arrotondare le entrate o di supplire alla disoccupazione del coniuge.
Anche in questo caso la bancarella era alquanto imponente, perché nelle pieghe riposte del suo ventre doveva starci una piccola ghiacciaia, una scorta di bottiglie d'aranciata, limonata e birra e chissà che altro. Un vetro divideva dagli avventori le bottiglie con gli sciroppi, i bicchieri e una serie di cucchiaini contenuti in un bussolotto di alluminio, mentre una piccola macchina azionata a mano serviva per grattare il ghiaccio: il tutto era sormontato da una tenda a righe, mentre la padrona, quando non c'erano clienti, leggeva Bolero o Grand Hotel su una sedia impagliata, portata da casa.
È probabile che il grosso delle entrate provenisse alla signora dalla vendita delle granite, che erano varie di prezzo e dimensioni: c'erano le granite da venti lire, riservate alle ragazze grandi, che se le facevano offrire dal "moroso", ed erano servite in lunghi bicchieri da bibita.
Quando avevamo ricevuto la paghetta o una mancia, anche noi bambine acquistavamo una granita da venti, ma non nel bicchiere grande, perché al posto della quantità di ghiaccio "da venti lire" chiedevamo tre diversi tipi di sciroppo fortemente colorato. Infatti, non consideravamo lo sciroppo per il suo sapore, bensì per il suo colore; la triade rosso-blu-giallo significava - più o meno - il mélange di sapori al lampone (o all'amarena), all'anice e alla banana: era una cosa indegna ma, poiché i colori ci sembravano belli e brillanti, mandavamo giù tutto senza battere ciglio. Sopravvissute alla guerra, le granatine di sapore vomitevole non ci facevano nessun effetto.
Le dieci lire davano diritto alla quantità di ghiaccio tritato contenuta in un bicchiere da vino e a due soli colori: la padrona, su questo punto, era irremovibile perché, se avesse ceduto a sganciare un solo pelino di un terzo colore a una bambina, tutte le altre l'avrebbero tormentata per il rimanente della sua vita.
Bicchieri e cucchiai usati venivano messi dentro una mastelletta di zinco con acqua e varechina e posti a sciacquarsi dentro un altro contenitore smaltato, direttamente sotto il getto della fontana pubblica poco distante. Ma c'era di peggio; visto che spesso non avevamo neppure le dieci lire, ma solo cinque, la fantasiosa signora, un po' per pietà, un po' per rapinarci anche quelle, si era inventata un nuovo sistema di servire la granita: riempiva un bicchiere piccolo di ghiaccio nel quale versava un solo sciroppo (le cinque lire, infatti, davano diritto a un solo colore) e poi ci sformava la granatina direttamente in mano.
Ecco: quella da cinque lire era la famosa granita in man, tanto vanamente perseguita dalle mamme, giustamente preoccupate che non ci prendessimo il colera, ma non tanto avvedute - o possidenti - da rifilarci qualcosa di più di quelle misere cinque lire. (...)
Succedeva così che, depositate le nostre cinque lire sul banco, occupavamo un po' di tempo a saltare come capre per non sbrodolare sul grembiulino la granita che si scioglieva, passando in fretta il ghiaccio sciroppato da una mano all'altra, succhiando disperatamente perché quelle preziose cinque lire non finissero per terra in tante goccioline d'acqua colorata; dopo, andavamo in fila indiana (mica tanto, ci rifilavamo certi spintoni per arrivare prime) alla fontana pubblica, per lavarci le mani e il muso impiastricciati di sciroppo, asciugandoci le mani sul lembo del grembiule di tela.
Anche la granita in man, per quanto ricordo, al sabato diventava oggetto di confessione, come lo era stato, nelle altre stagioni, il famigerato fanfarniche.

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