foto di Elena Fiorio - Burano maggio 2009
Ricetta: cuori ghiacciati di birra alla ciliegia
20 agosto 2018

Le birre aromatizzate alla frutta non sono proprio la mia passione ma questi cuoricini possono avere il loro perchè...

Cuori ghiacciati di birra alla ciliegia

1 bottiglietta di birra alla ciliegia (Cherry Chouffe Rouge)

Munirsi di stampini formaghiaccio a forma di cuore.
Versare la birra alla ciliegia negli stampi e metterli in freezer per alcune ore sino a quando i ghiacciolini sono completamente solidificati.
Servire i cuori di birra in ciotoline individuali e pescarli velocemente con un cucchiaino perchè tendono a sciogliersi velocemente a causa del contenuto alcolico.

Interessante e originale proposta per un fine pasto estivo.

Kriek: birra belga alla ciliegia. La parola fiamminga "kriek" identifica una ciliegia piccola, scura e amara originaria di Schaarbeek usata per la produzione di questa birra anche se i birrai hanno rimpiazzato, in parte o completamente, queste ciliegie con altre varietà più comuni. Tradizionalmente la birra kriek è realizzata a partire da una base di lambic o di ale scura fiamminga dove le ciliegie, con il nocciolo, vengono lasciate in infusione per diversi mesi ottenendo un aroma di frutta non particolarmente dolce e con un tono amaro di mandorla dato dai noccioli. Talvolta le kriek possono però essere semplicemente addizionate a succo di ciliegie con o senza l'aggiunta di zucchero. Sono birre particolarmente popolari in Belgio e nei Paesi Bassi.



www.achouffe.be

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El fanfarniche e la granita in man
24 settembre 2016

Estratti dal libro "Chi xé mona, staga a casa!" di Espedita Grandesso sottotitolato: detti, insulti e prese in giro.

EL FANFARNICHE. Il dolce in oggetto ha più denominazioni, ma ricordo solo questa; consisteva in una treccia composta da zucchero di canna e melassa, lunga un dito e grossa, forse, un poco di più. Era un dolce durissimo, che noi bambini di allora consumavamo succhiandolo lentamente, fino ad avere le labbra e la lingua infiammate, per poi sgranocchiarlo, una volta che la massa si fosse ridotta, grazie ai nostri denti che facevano concorrenza a quelli dei molossi. (...) Questo dolce esiziale ha fatto parte della mia infanzia e di quella di tanti altri bambini: ci ha spinto a sgraffignare qualche lira per raggiungere la quota di dieci (tanto costava un pezzo di quella robaccia); ci ha spinto a mentire alle nostre "sante mamme" (erano definite così durante l'ora di catechismo) (...)
Sfuggendo all'occhiuta attenzione di mia madre che, apprensiva ma dotata di buon senso, a volte mi lasciava uscire con altre quattro o cinque bambine conosciute, ho potuto assistere alla "creazione del fanfarniche".
In campo Santa Margherita, nei giorni di mercato, arrivava un signore rivestito di un grembiule bianco pieno di macchie multicolori, col suo meraviglioso carretto, che si smontava e rimontava fino a fargli assumere la forma di un banco da vendita, con annessa vetrinetta contenente vari dolci, sempre rigorosamente a base di zucchero: croccanti, frutta caramellata, caramelle e mosche (quelle entravano nella vetrinetta "motu proprio" e il padrone faceva l'atto di cacciarle, ma poi si rassegnava, avendo altro da fare).
Dall'interno del carretto l'omino (era, infatti, un signore di bassa statura) estraeva un treppiedi di ferro e un calderone che poneva sul treppiedi e riempiva con un secchio d'acqua, sotto al treppiedi accendeva un fuoco vivo di legna aiutandosi, credo, con uno spruzzo d'alcol o di benzina. Quando all'interno della caldaia l'acqua bolliva, il "mago del fanfarniche" ci versava sopra della melassa e dello zucchero grezzo, poi afferrava un mestolo di legno e cominciava a girarlo e rigirarlo nella massa sempre più compatta e collosa. (...)
Quando la massa nel calderone aveva raggiunto la giusta consistenza e un colore bruciato e dorato, molto simile a quello dell'avventurina, il mago, armato di due pezzi di vecchia coperta, toglieva la caldaia dal fuoco, che spegneva con i piedi, calzati in zoccoli di legno pesante, e versava il contenuto sul ripiano di zinco del famoso carretto multiuso. A questo punto avveniva qualcosa d'impensabile: il mago afferrava destramente quella massa infuocata e la lanciava contro un gancio attaccato a un'asse verticale, annessa al suo trabiccolo, la stirava e la intrecciava, lanciandola e rilanciandola fino a farle assumere lo spessore voluto. Ogni tanto, per non scottarsi troppo o per rendere i palmi scivolosi, si sputava nelle mani e riprendeva con lena e rapidità la lavorazione della treccia di zucchero.
Quando la treccia aveva raggiunto il giusto spessore, la toglieva dal gancio, la posava sul ripiano di zinco e, prima che s'indurisse troppo, la tagliava con un coltellaccio da macellaio in tanti pezzetti, miracolosamente uguali, dopo di che posava i pezzi di fanfarniche su un vassoietto e li metteva nella vetrina, assieme all'altra mercanzia: un pezzo di quel dolce costava dieci lire, gli altri troppo di più. Il farfarniche aveva una parte notevole nella nostra vita spirituale di bambine cattoliche, perché era motivo non irrilevante delle nostre confessioni nel settore "bugie" e "peccati di gola".

LA GRANITA IN MAN. Altro motivo di contenzioso con le "sante mamme" (e nella maggior parte dei casi lo erano davvero, povere donne) era la granita in man, un peccato di gola estivo, non meno perseguito del fanfarniche.
La bancarella delle granite spuntava verso giugno su una fondamenta dietro a quella dove abitavo e rimaneva lì per tutta l'estate, almeno fino a settembre. La gestiva una signora né vecchia né giovane: una madre di famiglia, che aveva trovato il modo di arrotondare le entrate o di supplire alla disoccupazione del coniuge.
Anche in questo caso la bancarella era alquanto imponente, perché nelle pieghe riposte del suo ventre doveva starci una piccola ghiacciaia, una scorta di bottiglie d'aranciata, limonata e birra e chissà che altro. Un vetro divideva dagli avventori le bottiglie con gli sciroppi, i bicchieri e una serie di cucchiaini contenuti in un bussolotto di alluminio, mentre una piccola macchina azionata a mano serviva per grattare il ghiaccio: il tutto era sormontato da una tenda a righe, mentre la padrona, quando non c'erano clienti, leggeva Bolero o Grand Hotel su una sedia impagliata, portata da casa.
È probabile che il grosso delle entrate provenisse alla signora dalla vendita delle granite, che erano varie di prezzo e dimensioni: c'erano le granite da venti lire, riservate alle ragazze grandi, che se le facevano offrire dal "moroso", ed erano servite in lunghi bicchieri da bibita.
Quando avevamo ricevuto la paghetta o una mancia, anche noi bambine acquistavamo una granita da venti, ma non nel bicchiere grande, perché al posto della quantità di ghiaccio "da venti lire" chiedevamo tre diversi tipi di sciroppo fortemente colorato. Infatti, non consideravamo lo sciroppo per il suo sapore, bensì per il suo colore; la triade rosso-blu-giallo significava - più o meno - il mélange di sapori al lampone (o all'amarena), all'anice e alla banana: era una cosa indegna ma, poiché i colori ci sembravano belli e brillanti, mandavamo giù tutto senza battere ciglio. Sopravvissute alla guerra, le granatine di sapore vomitevole non ci facevano nessun effetto.
Le dieci lire davano diritto alla quantità di ghiaccio tritato contenuta in un bicchiere da vino e a due soli colori: la padrona, su questo punto, era irremovibile perché, se avesse ceduto a sganciare un solo pelino di un terzo colore a una bambina, tutte le altre l'avrebbero tormentata per il rimanente della sua vita.
Bicchieri e cucchiai usati venivano messi dentro una mastelletta di zinco con acqua e varechina e posti a sciacquarsi dentro un altro contenitore smaltato, direttamente sotto il getto della fontana pubblica poco distante. Ma c'era di peggio; visto che spesso non avevamo neppure le dieci lire, ma solo cinque, la fantasiosa signora, un po' per pietà, un po' per rapinarci anche quelle, si era inventata un nuovo sistema di servire la granita: riempiva un bicchiere piccolo di ghiaccio nel quale versava un solo sciroppo (le cinque lire, infatti, davano diritto a un solo colore) e poi ci sformava la granatina direttamente in mano.
Ecco: quella da cinque lire era la famosa granita in man, tanto vanamente perseguita dalle mamme, giustamente preoccupate che non ci prendessimo il colera, ma non tanto avvedute - o possidenti - da rifilarci qualcosa di più di quelle misere cinque lire. (...)
Succedeva così che, depositate le nostre cinque lire sul banco, occupavamo un po' di tempo a saltare come capre per non sbrodolare sul grembiulino la granita che si scioglieva, passando in fretta il ghiaccio sciroppato da una mano all'altra, succhiando disperatamente perché quelle preziose cinque lire non finissero per terra in tante goccioline d'acqua colorata; dopo, andavamo in fila indiana (mica tanto, ci rifilavamo certi spintoni per arrivare prime) alla fontana pubblica, per lavarci le mani e il muso impiastricciati di sciroppo, asciugandoci le mani sul lembo del grembiule di tela.
Anche la granita in man, per quanto ricordo, al sabato diventava oggetto di confessione, come lo era stato, nelle altre stagioni, il famigerato fanfarniche.

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“La casa buia” di Dennis Lehane
15 settembre 2016

Eravamo al Live Bootleg, una minuscola bettola sul confine fra Boston Sud e Dorchester, senza insegna sull'entrata. L'esterno di mattoni era dipinto di nero, e l'unica indicazione che il bar avesse un nome era scarabocchiata con la vernice rossa sull'angolo inferiore destro del muro davanti a Dorchester Avenue. In apparenza proprietà di Carla Dooley, nota anche come «L'adorabile Carlotta» e suo marito, Shakes, il Live Bootleg era in realtà il bar di Bubba, e non avevo mai visto il locale vuoto o la gola di qualcuno secca. Era anche una bella clientela; nei tre anni da che Bubba l'aveva aperto, non c'era mai stata una rissa o una fila per il bagno perché qualche drogato ci metteva troppo tempo a farsi una dose nel cesso. Naturalmente, tutti sapevano chi fosse il vero proprietario e come reagiva se qualcuno dava un pretesto agli sbirri per bussare alla porta, e così, nonostante il suo interno buio e la sua dubbia reputazione, il Live Bootleg era pericoloso quanto la tombola del mercoledì sera alla parrocchia di San Bartolomeo.

La casa davanti a cui Bubba parcheggiò era a un isolato di distanza dalla spiaggia, le case da ambo i lati erano pericolanti e inclinate verso il terreno. Nel buio, l'edificio pareva sul punto di crollare, e mentre non riuscivo a capire molto dei dettagli, avvertivo una spiacevole sensazione di degrado.
L'anziano che venne ad aprirci la porta aveva una barba rada che si rifiutava ostinatamente di crescergli sotto il mento. Era più o meno fra i cinquanta e i sessanta, con una gobba nodosa sulla schiena scheletrica che lo faceva sembrare ancora più vecchio. Portava un consunto berretto da baseball dei Red Sox che pareva troppo piccolo anche per la sua testa minuta, una mezza T-shirt gialla che lasciava esposto un addome grinzoso e pallido, e un paio di calze lunghe da ballerina di nylon nero talmente strette intorno all'inguine che gli organi genitali sembravano un pugno chiuso.
L'uomo si spinse sulla fronte la tesa del berretto da baseball e chiese a Bubba: «Sei Jerome Miller?».
Jerome Miller era lo pseudonimo preferito di Bubba. Era il nome del personaggio interpretato da Bo Hopkins in Killer Elite, un film che Bubba aveva visto circa undicimila volte e che poteva citare a memoria.
«Tu che pensi?» Il corpo enorme di Bubba torreggiava sull'uomo smilzo e me lo toglieva dalla vista.
«Sto chiedendo» ribatté l'uomo.
«Io sono il Coniglio Pasquale che sta in piedi alla tua porta con una borsa da ginnastica piena di pistole.» Bubba si sporse sopra il vecchio. «Facci entrare, porca puttana.»
Il vecchio si fece da parte, e attraversammo la soglia per entrare in un salotto buio che puzzava di tabacco. Il vecchio si piegò sul tavolino in basso, sollevò una sigaretta accesa da un portacenere stracolmo, succhiò il filtro, e ci fissò attraverso il fumo, gli occhi pallidi che risplendevano nel buio.
«Allora, fatemi vedere» disse.
«Vuoi accendere una luce?» chiese Bubba.
«Niente luce qui» sibilò l'uomo.
Bubba gli rivolse un sorriso ampio e gelido a trentadue denti. «Portami in una stanza che ce l'ha.»
L'uomo scrollò le spalle ossute. «Come volete.»
Mentre lo seguivamo lungo un corridoio stretto, notai che il cinturino sul retro del berretto da baseball penzolava slacciato. Tentai di pensare chi mi ricordava quell'uomo. Poiché non conoscevo molti anziani che indossavano mezze T-shirt e calzamaglia, avrei dovuto immaginare che la lista delle possibilità sarebbe stata piuttosto corta.

Nel Crockett's Last Stand una notte, Rachel Smith si unisce a una conversazione da ubriachi su quello per cui vale la pena morire.
«La patria» dice un ragazzo fresco di servizio militare. Egli altri fanno un brindisi.
«L'amore» dice un altro ragazzo, e si becca una scarica di sghignazzi.
«I Dallas Mavericks» urla qualcun altro. «Stiamo morendo per loro fin da quando sono entrati nell'NBA.»
Ridono.
«Vale la pena di morire per un sacco di cose» dice Rachel Smith, mentre si avvicina al tavolo, avendo concluso il turno, con un bicchiere di scotch in mano. «La gente muore ogni giorno» dice lei. «Per cinque dollari. Per aver fissato la persona sbagliata al momento sbagliato. Per i gamberetti.»
«Morire non dà la misura di una persona» dice Rachel.
«Cosa lo dà allora?» grida qualcuno.
«Uccidere» dice Rachel.
C'è un momento di silenzio. Gli uomini scrutano attentamente Rachel, e quella sua voce dura è pari a quella cosa che compare a volte nei suoi occhi e che vi può far diventare nervosi se guardate troppo da vicino.
Elgin Bern, capitano della Blue's Eden, la migliore nave per gamberetti di Port Mesa, dice alla fine: «Tu per cosa uccideresti, Rachel?».
Rachel sorride. Alza il bicchiere di scotch così che la luce fluorescente sopra il tavolo da biliardo si rifletta nei cubetti di ghiaccio.
«Per la mia famiglia» dice Rachel. «Solo per la mia famiglia.»
Qualcuno ride nervosamente.
«Senza pensarci due volte» aggiunge Rachel. «Senza guardarmi indietro.»
«Senza la minima pietà.»


dennislehane.com

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Nevica
2 gennaio 2016

Brr...


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Ricetta: frullato leggero di banane e albicocche
29 luglio 2015

Frullato leggero di banane e albicocche

4 banane
12 albicocche
2 bicchieri rasi di latte di riso
2/3 cucchiaini di zucchero a velo vanigliato


Tagliare la frutta a pezzi e metterla insieme al latte di riso nella brocca del frullatore.
Frullare sino a ottenere un composto fluido e spumoso. Aggiungere lo zucchero sino a ottenere il grado di dolcezza desiderato.
Servire con grosse cannucce colorate!

Per preparare un frullato senza l'aggiunta di ghiaccio è importante avere tutti gli ingredienti ben freschi da frigorifero o anche da congelatore.

Il frullato è una bevanda fresca, relativamente liquida, che si ottiene frullando della frutta (e talvolta anche alcuni tipi di verdura) con acqua o più spesso latte, yogurt o simili e l'aggiunta opzionale di zucchero e altri ingredienti (soprattutto cacao o vaniglia).
Il frappè è un frullato più denso al quale è aggiunto ghiaccio tritato o gelato, si chiama frappè anche anche il frullato di solo gelato e latte.
Con il termine smoothie è spesso indicata una bevanda di frutta o verdura frullata (talvolta precedentemente congelata) con l’aggiunta di sola acqua oppure yogurt magro, latte di riso o di soia.




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Prigioniero del ghiaccio
6 febbraio 2012

Oggi ho proprio bisogno di una storia a lieto fine...

Salvato il cigno prigioniero del ghiaccio.
Annaspava nel laghetto del Parco Forlanini di Milano diventato uno specchio di ghiaccio poi sono arrivati i vigili del fuoco che, indossata una speciale tuta termica, si sono spinti sulla superficie ghiacciata sino a riuscire ad afferrarlo. Ferito a una zampa e infreddolito il cigno tratto in salvo è stato consegnato all'Enpa che si prenderarà cura di lui.

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I giorni della merla
1 febbraio 2012

I giorni della merla sono finiti ma fa ancora un freddo di merda...


I giorni della merla corrispondono agli ultimi tre giorni di gennaio e secondo la tradizione sono i giorni più freddi dell'anno.

Alcune storie popolari lombarde legano l'origine di questo curioso nome ad alcuni particolari avvenimenti accaduti in tempi passati non meglio precisati:

una nobile signorina di Caravaggio, di nome de Merli, per raggiungere il futuro marito oltre il fiume Po per la cerimonia nuziale dovette aspettare questi giorni per passare sopra il fiume gelato;

degli uomini dovendo trasportare sull'altra sponda del fiume Po un cannone, nominato la Merla, pensarono di aspettare i giorni di freddo più intenso in modo da poterlo spingere sulle acque ghiacciate.

Oppure l’origine sarebbe da ricercare in leggende popolari che raccontano:

una merla e i suoi piccoli, in origine bianchi, per ripararsi dal gran freddo si rifugiarono dentro un comignolo e ne uscirono solo il primo di febbraio tutti pieni di fuliggine, da quel giorno tutti i merli furono neri;

una merla, con uno splendido piumaggio bianco, subiva regolarmente i dispetti di gennaio (allora aveva solo ventotto giorni) che si divertiva a gettarla nella terra sporca e fredda quando usciva dal nido in cerca di cibo, stanca delle continue persecuzioni un anno la merla decise di fare provviste sufficienti per un mese e rimase nel suo nido al riparo fino a febbraio, gennaio si arrabbiò a tal punto che chiese in prestito tre giorni a febbraio e scatenò bufere di neve, vento e gelo, la merla si rifugiò allora in un camino e vi rimase per tutti i tre giorni, quando uscì il suo bel piumaggio si era annerito e così rimase per sempre.

Sempre secondo la tradizione se i giorni della merla sono freddi la primavera sarà bella, se sono caldi la primavera arriverà in ritardo.

Ai negati di ornitologia si ricorda che questi uccelli presentano un forte dimorfismo sessuale nella livrea che è bruna (becco incluso) nelle femmine e nera brillante (con becco giallo-arancione) nel maschio.

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