foto di Elena Fiorio - Burano maggio 2009
Taiyaki
1 aprile 2019

Orata d'aprile! Auguri a Giuliana...


Il taiyaki (たいやき letteralmente "orata alla piastra") è un tipico dolce da strada giapponese comunemente venduto in chioschi e bancarelle. A forma di pesce è solitamente ripieno di anko, ossia confettura di fagioli azuki, ma può essere farcito anche con crema o cioccolato.

L'impasto del taiyaki è simile alla pastella del pancake o del waffle e il curioso dolcetto viene cotto in un tradizionale stampo in ghisa a forma di orata.

Pare che il primo taiyaki sia stato preparato, nel lontano 1909, nel locale "Naniwaya Souhonten" ancora in attività nel quartiere Azabu Juban di Tokyo. Negli anni 70 è stata scritta anche la canzone "Oyoge! Taiyaki-kun" (Nuota! Taiyaki) che racconta di un taiyaki che scappa dalla piastra dove è stato cucinato per assaporare la libertà di nuotare nel mare ma viene presto pescato e mangiato.

Belli e divertenti da preparare i taiyaki possono essere realizzati anche in versione salata.

Il video "Oyoge! Taiyaki-kun" di Masato Shimon

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Fish Flops Slippers
25 aprile 2018

A proposito di pescivendoli...


Una ciabatta carpa per sentirsi un po' Sampei.

Il sito Good Times recita: "Le Fish Flops originali sono tornate solo per un periodo limitato. Le ciabatte indispensabili per ogni pescatore sono incredibilmente dettagliate e lucenti tanto da sembrare pesci veri! Realizzate con materiali di alta qualità sono il regalo perfetto per te e tutta la tua famiglia".

In vendita anche su altri siti in differenti colori. Come resistere?

shopgoodtimes.co

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“Il testimone” di Francesco Recami
14 agosto 2017

Dalla raccolta "Viaggiare in giallo" di Giménez-Bartlett, Malvaldi, Manzini, Recami, Robecchi, Savatteri

Andarono a giocare al parco giochi, un giardinetto spelacchiato. Raul pisciava lontanissimo e sapeva fare dei rutti lunghissimi, dopo essersi riempito di coca-cola. Coca-cola? Per Enrico si trattava di una sostanza proibitissima, la mamma non gliela aveva mai fatta neanche vedere da lontano e lui era certo che a berla si andava all'inferno o anche peggio. E a quel bambino permettevano di bersene un bottiglione! Enrico era sbalordito. Quello beveva a bottiglia, senza fermarsi mai. Ma com'è che non moriva sul colpo?
Ma invece di morire quello faceva dei rutti spaziali e ruttando diceva «Alabuenadedios» o qualcosa del genere.
«Me la fai assaggiare?» riuscl a chiedere intimorito l'Enrico, controllando che la mamma non stesse guardando da quella parte.
Raul gli offrì il boccione, continuando a fare rutti smisurati.
Enrico sollevò il bottiglione e dette alcune piccole sorsate, e in breve fu l'estasi.
La coca-cola era una bibita meravigliosa, che ti riempiva la bocca e il naso di un gas dai poteri mega e ti faceva sentire benissimo. Enrico ne dette altre sorsate, sempre più consistenti. E poi l'effetto magico, il rutto. Anche Enrico proruppe in un colossale, se proporzionato al suo fisico mingherlino, rutto, che uscì mezzo dalla bocca e mezzo dal naso. Era questa la droga?
I grandi ti proibiscono sempre le cose migliori.
Insomma Enrico si ambientò e trascorse due giorni di sano divertimento coi suoi amici, passando il tempo a fare la pipì nella piscina e a tirarsi le borse di plastica piene d'acqua. L'unico timore di Enrico era che la mamma venisse a scoprire che lui aveva bevuto (e continuava a bere!) coca-cola. Lo avrebbe messo in prigione?

Partirono con la Doblò a fare un giro. Prima andarono alla Punta delle Oche, dove le oche non c'erano. Poi arrivarono al faro di Capo Sandalo, dove di sandali non ce n'era neanche uno spaiato, poi alle saline dove il sale non c'era, invece c'erano tanti uccelli col becco a punta. Infine raggiunsero le tonnare, e la signora Grazia spiegò che le tonnare lì non c'erano più. Insomma, in quel posto i nomi li davano a caso. Però erano tutti bellissimi e fantastici, Enrico avrebbe desiderato una macchina da presa per girare dei filmini, così si risparmiava la fatica di fare i disegni.
La tonnara fu il posto che lo magnetizzò di più, anche perché il nonno gli spiegò, in modo un po' semplicistico, come facevano a catturare i tonni. Li facevano entrare in certi canali, li imprigionavano lì e poi li prendevano a mazzate. Il mare si tingeva di rosso, per via di tutto il sangue. Enrico ne rimase molto impressionato.
Sulla punta c'era una piazzola panoramica da dove si vedeva un'isoletta minuscola e spoglia. «Quella si chiama Isola Piana» ed era effettivamente piana, non c'era una collinetta a pagarla oro. Meno male, pensò Enrico.

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“Mi ricordo di te” di Yrsa Sigurdardottir
14 luglio 2017

Finalmente un libro inquietante dove non solo il cane non è il primo a morire ma è forse l'unico che si salva...

«Com'è tranquillo, qui». Garòar ruppe il silenzio che la barca aveva lasciato. «Credo di non essere mai stato in un posto così isolato». Si chinò e la baciò sulla guancia chiazzata di salsedine.
«Ma è indubbio che ci abiti gente in gamba».
Katrin gli sorrise e non gli chiese se aveva dimenticato quella malaticcia di Lif. Volse le spalle al mare, dove non desiderava affatto vedere la barca sparire del tutto alla vista, e osservò invece la riva e la terra. Lif si era alzata in piedi e si sbracciava verso di loro. Katrin sollevò la mano per farle un cenno a sua volta, ma la lasciò cadere quando vide qualcosa muoversi velocemente alle spalle dell'amica vestita di bianco. Era un'ombra nera come la pece, molto più scura dell'ambiente in penombra.
Sparì altrettanto in fretta com'era apparsa, così Katrin non riuscì a distinguere chi fosse. Però le era parsa simile a una persona di bassa statura. Si aggrappò forte al braccio di Garòar.
«Cos'era?»
«Cosa?» Garòar aguzzò la vista seguendo l'indicazione di Katrin. «Vuoi dire Lif?»
«No. C'era qualcosa che si muoveva dietro di lei».
«No». Garòar la guardò stupito. «Non c'è niente. Solo una donna con il mal di mare e una tuta da sci addosso. Magari era solo il cane, no?»
Katrin cercò di apparire tranquilla. Poteva anche darsi che avesse avuto un abbaglio. Ma quello non era Putti, di questo era certa, era davanti a Lif e annusava l'aria. Forse il vento aveva spostato qualche oggetto. In ogni modo, non spiegava la rapidità con cui era sfrecciato, anche se naturalmente poteva essere arrivata una raffica improvvisa o una corrente. Lasciò il braccio di Garòar e si concentrò a respirare lentamente per il tratto che le restava da percorrere lungo il pontile. Non disse nulla nemmeno
quando ebbero raggiunto Lif. Si sentì un fruscìo e la vegetazione secca e ingiallita davanti a loro scricchiolò, come se qualcuno l'avesse calpestata. Né Garòar né Lif sembravano aver notato niente, ma Katrin non poté fare a meno di pensare che non fossero da soli, lì a Hesteyri.

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“Squadra speciale Minestrina in brodo”
24 novembre 2016

di Roberto Centazzo

«Meno trenta!» esclamò Pammattone sollevando il flûte dello spumantino.
Andavano in quel bar da anni, solitamente di mattina presto per il primo caffè della giornata, o all'ora di pranzo per un piatto di spaghetti o un'insalata. Era un bar elegante, rimodernato da poco in toni provenzali, situato sotto i portici di piazza della Vittoria.
Quel giorno si lasciarono tentare dagli stuzzichini, pizzette, focaccia e tartine, e ordinarono un aperitivo. Anche Santoro, che pure avvertiva pericolosi bruciori allo stomaco. Fecero tintinnare i bicchieri.
«Prosit!» disse Mignogna.
«Siamo arrivati alla fine. Ancora non mi sembra vero», constatò Pammattone.
«Ho già la barca pronta. Tra un mese a quest'ora sarò su qualche spiaggetta a cucinarmi una bella grigliata di pesce appena pescato», disse Santoro, che era di Genova e come quasi tutti i liguri amava il mare.
«Io me ne torno nel mio paese, a Pietrabbondante, in Molise», seguì Mignogna.
«E che ci vai a fare? Manco l'acqua avete!» lo sfotté Santoro.
«Sì, prendi in giro. Che ci sto a fare qui, piuttosto? Mia figlia si è sposata, e io le sono soltanto d'impiccio. Da quando mia moglie è mancata, sono una palla al piede per lei. Beati voi che...» Avrebbe voluto aggiungere: «che siete senza figli», ma si bloccò subito.
Luc Santoro, benché non fosse sposato, di figli, anzi figlie, ne aveva messe al mondo tre. E ognuna con una donna diversa. Tanto da guadagnarsi, sul campo, l'appellativo di Inseminator. Ormai erano tutte grandi, ma Luc, soltanto di alimenti, si era rovinato. Con le sue stesse mani.
Quanto a Pammattone, dal punto di vista sentimentale, era quello messo peggio. Originario di Udine, dopo i primi anni di apprendistato, aveva scelto di fare servizio alla Squadra mobile, e lì non c'è più vita: orari strampalati, notti insonni, appostamenti... Non era mai riuscito a farsi una famiglia. Si era adattato a vivere in caserma, come una giovane recluta, in una stanza che, soltanto per rispetto alla sua età e al suo ruolo, gli avevano lasciato in uso come singola, benché avesse quattro letti come tutte le altre.
«Beati voi, che non capite un cazzo», concluse Mignogna con una sterzata improvvisa.
«Beati noi una minchia! Io dovrò cercarmi una casa da qualche parte o sposarmi qualche vecchia vedova, magari ricca», replicò Pammattone e scoppiò a ridere.
«Figuriamoci se un ispettore come te, anzi, un sostituto commissario come te, non trova una donna», lo sfotté Santoro.

«Mi sono comperato una bicicletta da corsa, lo sai?»
Marika sgranò gli occhi. «Lasci la Polizia?»
«L'ho già...» Si interruppe, non aveva nessuna voglia di dare spiegazioni. Se avesse detto a Marika che aveva lasciato la Polizia ed era in pensione, lei gli avrebbe domandato: «Come mai indaghi lo stesso, allora?»
Che cosa avrebbe potuto dirle? Che lui, Ferruccio Pammattone, nome in codice Semolino, insieme con altri due ex colleghi, Eugenio Mignogna, nome in codice Kukident, e Luc Santoro, nome in codice Maalox, di stare a casa a far nulla non ne avevano voglia? Che lontani dal lavoro si annoiavano? Poteva raccontarle che avevano messo su una sezione non ufficiale della Squadra mobile? Un ufficio fantasma che operava in gran segreto, denominato con affetto Squadra speciale Minestrina in brodo? No, non poteva. «L'ho già provata», si corresse in tempo, «è una bomba».

Ora, ai tanti casi risolti nella loro lunga carriera, di cui poter parlare rivangando il passato, avrebbero potuto aggiungere quello da poco concluso. Un'operazione coi fiocchi, che non solo aveva consolidato la loro amicizia, ma anche consacrato la nascita di una nuova squadra, la Squadra speciale Minestrina in brodo. Pur non contemplata in nessun organigramma, funzionava a meraviglia. (...)
«Sarà meglio che adesso ci prendiamo una bella vacanza da qualche parte, però», disse Semolino in tono grave, facendo intendere che quel caso lo aveva impegnato molto.
«Deve essere un posto in cui permettono l'ingresso ai cani», si premurò di precisare Kukident.
«Vecchi e cani... Io me ne sto a casa», scherzò Maalox, che aveva sempre la battuta pronta.
«Potremmo andare alle terme», propose Semolino.
«Sai che allegria, tutto il giorno in accappatoio con un bicchiere d'acqua in mano», replicò Maalox.
«Io avrei proprio bisogno di un bel massaggio, una settimana di cure termali non la escluderei», disse Kukident.
«E se invece...» Semolino si interruppe subito.
«Se?»
«Se realizzassimo il sogno che avevamo a vent'anni?»
«Il giro dell'Europa col pulmino Volkswagen?»
«Sì col mitico T2!»
Ne avevano parlato più di una volta, ma era un desiderio mai realizzato. A vent'anni non avevano i soldi, a trenta non avevano il tempo, a quaranta non avevano ferie, a cinquanta si sentivano stanchi... O adesso o mai più.
«Va bene, ma...»
«Ma?»

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Fubirai e l’isola dei gatti
7 febbraio 2014



Il fotografo giapponese Fubirai ha trascorso cinque anni a documentare la vita dei gatti che vivono nell'isola di Tashirojima al largo della costa di Fukuoka, in Giappone.
La piccola isola ospita un villaggio di pescatori dove i gatti sono molto più numerosi degli abitanti umani con una media di quattro a uno.

I gatti furoni portati sull’isola nei tempi antichi del periodo Edo (1603-1868) per cacciare i topi dagli allevamenti di bachi da seta e in seguito, cessata la produzione di seta, sono stati tenuti in grande considerazione dai pescatori perché ritenuti utili per prevedere l'arrivo delle tempeste nonchè capaci di proteggere durante le uscite in mare garantendo fortuna e prosperità.

Secondo la tradizione locale, un giorno un pescatore che stava raccogliendo delle pietre da utilizzare per le sue reti, ha fatto rotolare accidentalmente un masso che ha ucciso un gatto, il profondo rispetto che il pescatore nutriva per questo animale lo ha portato a seppellire il suo corpicino e a creare un santuario, il Neko-jinja, in ricordo dello sfortunato felino e per proteggere tutti i gatti dell'isola.
Oggi a Tashirojima si contano almeno una decina di santuari simili, oltre a una cinquantina di statue raffiguranti mici e molti edifici a forma di gatto.

I felini considerati il porta fortuna dell'isola, nota anche come "il paradiso dei gatti", sono nutriti e tenuti in buona salute dagli abitanti del villaggio. Abituati al contatto con gli uomini seguono sempre i numerosi turisti accompagnandoli nella visita del loro regno.

Ecco il sito di Fubirai con le foto dei gatti dell'isola di Tashirojima:
d.hatena.ne.jp/fubirai

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“I cani di Riga” di Henning Mankell
18 marzo 2012

La spiaggia di Mossby era deserta, i chioschi e i bar erano chiusi per l'inverno, il mare aveva il colore freddo all'acciaio. A parte il rumore delle onde, l'unico altro suono era il cigolio lamentoso delle altalene che dondolavano irregolarmente mosse dalle folate di vento. Quando Wallander scese dall'auto una folata gli sferzò il viso e lo fece rabbrividire. Sulla cima di una duna, fra i ciuffi d'erba senza vita, la figura di una donna si stagliava contro il cielo agitando un braccio. Di fianco a lei, un cane si muoveva irrequieto. Wallander si incamminò con passo rapido. Come sempre, sentiva l'angoscia crescere dentro di sè per quello che avrebbe visto. Non era mai riuscito a evitare un senso di acuto malessere alla vista di persone morte e sapeva che non ci sarebbe mai riuscito. I morti avevano una cosa in comune con i vivi, erano sempre diversi. (...)
Poi pensò che era stata una fortuna che il canotto non si fosse arenato in estate, quando la spiaggia era piena di gente e di bambini che giocavano. Quello che aveva davanti agli occhi non era uno spettacolo gradevole.

Come sempre suo padre era intento a dipingere nel vecchio fienile che chiamava il suo atelier. Il locale era pervaso dall'odore di trementina e di colori a olio, e come ogni volta, Wallander ebbe la netta sensazione di entrare nel proprio passato. Quegli odori pungenti che avvolgevano sempre suo padre quando lavorava nel suo atelier erano tra i primi ricordi della sua infanzia e sembravano non cambiare mai, così come rimanava immutabile il soggetto che suo padre dipingeva da sempre. Un paesaggio al tramonto. Di tanto in tanto, senza che Wallander fosse mai riuscito a capire quale strano impulso ne fosse la causa, il padre aggiungeva un gallo cedrone in primo piano sempre a sinistra.
Il padre di Wallender era un pittore della domenica. Un giorno, molti anni prima, aveva deciso di aver conquistato la perfezione della propria arte con quel motivo e non lo aveva più cambiato. Solo più tardi, quando aveva raggiunto la maturità, Wallander aveva capito che quella decisione non era dovuta a pigrizia o a incapacità. Quell'immutabilità dava a suo padre quel senso di sicurezza di cui aveva apparentemente bisogno per continuare ad affrontare la vita.

La risposta del maggiore Liepa lo sorprese.
"Io sono religioso" disse, "ma non credo in un dio. Però a dispetto di questo penso che l'uomo può avere una fede, si può credere a qualcosa che è al di là del limite naturale della ragione. Anche il marxismo incorpora una componente di fede non indifferente, anche se pretende di essere una dottrina razionale e non una semplice ideologia. (...)"

Sono pazzi, pensò Wallander. Pazzi che vivono in un mondo irreale, in un sogno dove hanno perso tutto il senso delle proporzioni. E io rappresento la loro ultima speranza e hanno ingigantito le mie capacità. Il poliziotto svedese come l'ultimo eroe romantico. Improvvisamnte gli sembrò di capire fino a che punto la paura potesse influenzare e cambiare le persone. Erano arrivati a credere che con la sua sola presenza, Wallander avrebbe risolto tutti i loro problemi come un angelo liberatore. Non erano certo dello stampo del maggiore Liepa, che molto realisticamente aveva solo e sempre fatto affidamento su se stesso. Il maggiore Liepa aveva detto di essere un uomo religioso ma non aveva lasciato che la sua fede fosse oscurata da un dio. Aveva capito che la realtà della nazione lettone iniziava e finiva con le ingiustizie che affliggevano la vita di tutti i giorni dei suoi cittadini. Con la scomparsa del maggiore, quelle persone avevano perso l'interlocutore di riferimento e nel loro stato di confusione mentale e smarrimento credevano di aver trovato in Kurt Wallander, il poliziotto svedese inviato dal cielo.

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