foto di Elena Fiorio - Burano maggio 2009
“I cani di Riga” di Henning Mankell
18 marzo 2012

La spiaggia di Mossby era deserta, i chioschi e i bar erano chiusi per l'inverno, il mare aveva il colore freddo all'acciaio. A parte il rumore delle onde, l'unico altro suono era il cigolio lamentoso delle altalene che dondolavano irregolarmente mosse dalle folate di vento. Quando Wallander scese dall'auto una folata gli sferzò il viso e lo fece rabbrividire. Sulla cima di una duna, fra i ciuffi d'erba senza vita, la figura di una donna si stagliava contro il cielo agitando un braccio. Di fianco a lei, un cane si muoveva irrequieto. Wallander si incamminò con passo rapido. Come sempre, sentiva l'angoscia crescere dentro di sè per quello che avrebbe visto. Non era mai riuscito a evitare un senso di acuto malessere alla vista di persone morte e sapeva che non ci sarebbe mai riuscito. I morti avevano una cosa in comune con i vivi, erano sempre diversi. (...)
Poi pensò che era stata una fortuna che il canotto non si fosse arenato in estate, quando la spiaggia era piena di gente e di bambini che giocavano. Quello che aveva davanti agli occhi non era uno spettacolo gradevole.

Come sempre suo padre era intento a dipingere nel vecchio fienile che chiamava il suo atelier. Il locale era pervaso dall'odore di trementina e di colori a olio, e come ogni volta, Wallander ebbe la netta sensazione di entrare nel proprio passato. Quegli odori pungenti che avvolgevano sempre suo padre quando lavorava nel suo atelier erano tra i primi ricordi della sua infanzia e sembravano non cambiare mai, così come rimanava immutabile il soggetto che suo padre dipingeva da sempre. Un paesaggio al tramonto. Di tanto in tanto, senza che Wallander fosse mai riuscito a capire quale strano impulso ne fosse la causa, il padre aggiungeva un gallo cedrone in primo piano sempre a sinistra.
Il padre di Wallender era un pittore della domenica. Un giorno, molti anni prima, aveva deciso di aver conquistato la perfezione della propria arte con quel motivo e non lo aveva più cambiato. Solo più tardi, quando aveva raggiunto la maturità, Wallander aveva capito che quella decisione non era dovuta a pigrizia o a incapacità. Quell'immutabilità dava a suo padre quel senso di sicurezza di cui aveva apparentemente bisogno per continuare ad affrontare la vita.

La risposta del maggiore Liepa lo sorprese.
"Io sono religioso" disse, "ma non credo in un dio. Però a dispetto di questo penso che l'uomo può avere una fede, si può credere a qualcosa che è al di là del limite naturale della ragione. Anche il marxismo incorpora una componente di fede non indifferente, anche se pretende di essere una dottrina razionale e non una semplice ideologia. (...)"

Sono pazzi, pensò Wallander. Pazzi che vivono in un mondo irreale, in un sogno dove hanno perso tutto il senso delle proporzioni. E io rappresento la loro ultima speranza e hanno ingigantito le mie capacità. Il poliziotto svedese come l'ultimo eroe romantico. Improvvisamnte gli sembrò di capire fino a che punto la paura potesse influenzare e cambiare le persone. Erano arrivati a credere che con la sua sola presenza, Wallander avrebbe risolto tutti i loro problemi come un angelo liberatore. Non erano certo dello stampo del maggiore Liepa, che molto realisticamente aveva solo e sempre fatto affidamento su se stesso. Il maggiore Liepa aveva detto di essere un uomo religioso ma non aveva lasciato che la sua fede fosse oscurata da un dio. Aveva capito che la realtà della nazione lettone iniziava e finiva con le ingiustizie che affliggevano la vita di tutti i giorni dei suoi cittadini. Con la scomparsa del maggiore, quelle persone avevano perso l'interlocutore di riferimento e nel loro stato di confusione mentale e smarrimento credevano di aver trovato in Kurt Wallander, il poliziotto svedese inviato dal cielo.

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