foto di Elena Fiorio - Burano maggio 2009
“Riccardino” di Andrea Camilleri
20 settembre 2020

L'ultima indagine di Montalbano...

Tra 'na cosa e l'autra, si fici l'ura di mangiare. Allura siccome che non aviva tanto pititto addicidì di raggiungiri la trattoria di Enzo a pedi, spiranno che la ca­minata gliel'avrebbi fatto smorcare. Però pinsò di allongari il percorso e pigliari strate meno trafichiate, vuoi per evitari la gran camurria dei motorini, vuoi per respirari tanticchia d'aria meno 'nquinata.
Quanno che trasì, la tilevisioni era addrumata e sintonizzata su «Televigàta». L'ammazzatina di Ric­cardino aviva fatto rumorata grossa e tutti evidentementi s'aspittavano di sapiri qualichi novità dall'indagini. Quelli che l'accanoscivano, isaro la testa a taliarlo e a salutarlo, spiannosi però come mai il commissario attrovava il tempo per annare a mangiare 'nveci di stari a fari il doviri sò.
«Dottore, oggi il cuscusu comu Dio cumanna fici».
«Che aspetti a portarimillo?».
Sullo schermo, un giornalista parlava fora campo mentri che si vidivano le 'mmagini di via Rosolino Pilo. La genti dai finestruna e dai terrazzini, appena che accapiva d'essiri 'nquatrata, salutava con le mano o svintuliava fazzuletta.
'Na festa!
Al posto del corpo di Riccardino, ora facivano vidiri 'na sagoma addisignata 'n terra col gessetto. A che minchia sirvivano 'ste sagome doppo che erano state scattate centinara di fotografie da tutti i punti di vista, compresi quelli del catafero? Montalbano, in tutta la longa carrera sò, non era mai arrinisciuto ad accapirlo. (...)
E nello stisso momento Enzo gli misi davanti il piatto del cuscusu. (...)
Di tutte chiste parole, Montalbano nni sintì sulamenti qualichiduna, ma come sono, non come significato. Era arrinisciuto a concentrarisi talmenti sul sciauro e sul sapori del cuscusu che aviva annullato del tutto i rumori e le voci del munno di fora. Appresso al cuscusu, che Enzo aviva priparato con chiossà di 'na decina di varietà di pisci, sarebbi, in teoria, umanamen ti 'mpos­sibili mangiarisi autro pisci. Ma la passiata aviva fatto effetto e 'nfatti il commissario si sbafò, come secunno, quattro triglie arrustute.
Quanno si susì, stimò che non era capace, con tutto quel carrico a bordo, di farisi la solita caminata fino a sutta al faro. L'unica era di strascinarisi al commissariato e abbannunarisi a corpo morto supra al divanetto dell'ufficio.
E naturalmenti, appena che si misi di traverso, s'ap­pinnicò.

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“Guarda ancora” di Lisa Scottoline
5 agosto 2018

«Resta sveglio, piccolo, okay?». Ellen lo scosse lievemente e gli sussurrò qualcosa, mentre il sangue gli sgorgava dalla ferita e intrideva un Kleenex dopo l'altro fino a farli sembrare i papaveri di carta che lui faceva a scuola. Glieli nascose fino a quando il sangue non rallentò, preoccupandola ancora di più. Oreo Figaro si avvicinò, si sedette davanti al divano con le zampe nascoste sotto di lui.
Will tirò su col naso. «Hai fatto male a Oreo Figaro, mamma».
«No, non è vero. Sapevo che non si sarebbe fatto male».
«L'hai volato».
«Sì, lo so». Ellen non lo corresse. Poteva fare tutti gli errori di grammatica che voleva, da ora in poi.
«Non è stato bello».
«Hai ragione». Ellen si voltò verso Oreo Figaro.
«Mi dispiace, Oreo Figaro».
Il gatto concesse il suo perdono alzando gii occhi, sbattendo le palpebre e sorvegliandoli fino a quando non arrivarono le auto della polizia, con i lampeggianti che ferivano l'intimità del salotto coprendo con chiazze rosso sangue le mucche e i cuori sulle pareti.
«Cos'è, mamma?», chiese Will, voltandosi.
«È la polizia. Sono venuti ad aiutarci, socio». Ellen si alzò e andò alla finestra. La strada sembrala un set televisivo. Le auto della polizia stavano parcheggiando, gli scappamenti emettevano grandi volute di fumo nell'aria gelida e i fari abbaglianti squarciavano l'oscurità punteggiata dai fiocchi di neve. Agenti in uniforme scesero dalle auto, figure nere che si stagliavano sul bianco, e si diressero rapidamente verso la sua veranda.
«Eccoli, mamma».
«Certo. Sono arrivati». Ellen si avviò alla porta mentre i poliziotti si affrettavano a salire sulla veranda con i loro scarponi militari e raggiungevano l'ingresso.
Erano venuti a salvare Will.
E a distruggere l'unica vita che lui conosceva.

«Dov'è Oreo Figaro, mamma? ».
«Oh. Era qui un attimo fa», rispose Ellen guardandosi attorno. Poi, videro entrambi il gatto nascosto sotto ii tavolo da pranzo, disturbato da tutta quella confusione, una nuvola bianca e nera con la coda che sembrava un punto esclamativo.
«Eccolo lì!», gridò Will, partendo all'inseguimento del gatto che corse in cucina.
«Oh-oh». Ellen seguì Will e tutti si voltarono a guardarlo trattenendo il fiato. Avevano discusso su come avrebbe potuto reagire nel rivedere la cucina, ed Ellen aveva consultato uno psicologo infantile che le aveva detto di lasciare che prendesse lui l'iniziativa di fare domande, il terapeuta aveva anche approvato la sua idea di ridipingere la cucina e lei sperava che anche Will approvasse. Trattenne il fiato quando lui raggiunse la soglia.
«Mamma», urlò Will, sorpreso. «Guarda qui!».
«Lo so, caro. È una sorpresa per te». Ellen si avvicinò a lui e gli poggiò una mano sulla testa. Lei e Marcelo avevano lavorato in cucina tutto il weekend, avevano installato il nuovo parquet sul pavimento e ridipinto le pareti per coprire le macchie di sangue. La scelta della tinta era stata la più facile, anche se quando la luce del sole la illuminava attraverso la finestra sul retro, sembrava che la cucina stesse germogliando. Non era certa che si sarebbe mai abituata ad avere una cucina verde brillante, né che ci sarebbe stato bisogno di farlo.
«È il mio colore preferito!», esclamò Will, poi agguantò il gatto e gli diede una bacio. «Ti voglio bene, Oreo Figaro».
«Anch'io ti voglio bene», rispose Ellen, facendo la voce di Oreo Figaro.
Will ridacchiò e rimise il gatto sul pavimento. «Posso aprire i regali, ora?».

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“Amori, crimini e una torta al cioccolato”
1 luglio 2018

di Sally Andrew
Un'indagine di Tannie Maria.

Non è buffa, la vita? Sai, per come le cose ne provocano altre in modo inaspettato.
Quella domenica mattina ero in cucina a rimestare la confettura di albicocche nella pentola di ghisa. Era una di quelle giornate terse d'estate nel Klein Karoo e mi godevo la brezza che entrava dalla finestra.
«Hai un profumo delizioso» dissi all'appelkooskonfyt. (...)
Mia madre era afrikaner e mio padre inglese, e le due lingue in me sono mischiate. Mangio in afrikaans e discuto in inglese, ma quando devo imprecare torno subito all'afrikaans.
L'appelkooskonfyt stava proprio venendo come si deve, densa e chiara, quando sentii l'auto. Aggiunsi alla confettura qualche armellina e una stecca di cannella, ignara che l'auto stesse portando il primo ingrediente di una ricetta di amore e crimine.
Ma forse la vita è come un fiume che scorre incessante avvicinandosi e allontanandosi dalla morte e dall'amore. Avanti e indietro.

Mia madre mi ha trasmesso l'amore per la cucina, ma è stato solo rendermi conto di quale pessima compagnia fosse mio marito a farmi capire che ottima compagnia potesse essere il cibo. Qualcuno potrebbe pensare che gli do troppa importanza. Be', lasciamo pure che lo pensi. Senza cibo sarei molto sola.

«Credo che dovremmo parlare con lui» dissi.
«Ma lui vorrà parlare con noi?» disse Hattie. «Mi sa che non è uno molto cordiale».
«Ho una fetta di quella torta al cioccolato e un panino con l'agnello arrosto» spiegai. «Con senape e cetriolini. Questo potrebbe indurlo a parlare».
«Non credo che dovremmo dare torta e agnello a quel bastardo» ribadì Jessie. «Si merita un bel calcio nelle palle».
«Quell'uomo ha una pistola, sai» disse Hattie. «Ma sono d'accordo: è più probabile che parli a una tannie che gli porta del cibo che a un paio di giornaliste investigative».
«D'accordo» concluse Jessie. «Tu puoi provare ad andare con il cibo e io ti aspetto fuori. Se gridi, arrivo di corsa con quel calcio. E uno spray al peperoncino».
Jessie mi sarebbe stata utile, ai tempi di mio marito Fanie.

Rosolai la pancetta affumicata e tostai il mio pane casereccio, poi preparai dei sandwich con pancetta e marmellata di arance e li misi in un Tupperware come spuntino da mangiare con Jessie più tardi. Ne preparai uno in più che sbocconcellai sullo stoep, guardando il ventre gonfio delle nuvole farsi rosa e poi rosso sangue. Poi di nuovo grigio, sempre più vicino, più grosso, più scuro. So che me ne sarei dovuta rallegrare, perché da qualche parte lì dentro c'era la pioggia, ma avevano un aspetto così cupo e pesante che nelle loro forme vedevo facce di uomini dalle barbe scure, con brutti pensieri nelle fronti rigonfie. Mio marito Fanie era morto e sepolto, ma a volte avevo l'impressione che fosse ancora con me, come un cattivo sapore in bocca.

Mentre tornavo alla macchina, mi chiesi che cos'avrei fatto se avessi pensato che stava arrivando la fine del mondo. Non credo in Dio o nella chiesa o cose del genere, per cui dubito che passerei il mio tempo a pregare o a elevarmi spiritualmente. Penso che cucinerei qualcosa di buono. Ma che cosa? E chi inviterei a mangiare?
La mia mente corse al pranzo con l'ispettore Kannemeyer (...)

Preparare i vetkoek con la carne speziata è un'arte messa a punto da generazioni e generazioni di tannie sudafricane. Mentre masticavo soddisfatta, pensai con gratitudine a tutte loro, e in particolare a mia madre, che mi aveva insegnato a farli. Lì nella mia cucina, addentando quel vetkoek ripieno, ebbi quel genere di sensazione che ci si aspetta quando si va in chiesa pieni di fede.
Ho detto che non credevo in niente, che la mia fede era volata via dalla finestra, ma forse non era vero. Credevo nei vetkoek ripieni e in tutte le tannie che li avevano fatti. Se fosse arrivata la fine del mondo, ecco cos'avrei preparato.

«Voi in che cosa credete?» domandai a Harriet e Jessie. (...)
Non risposero, così preparai le tazze: tè per Hattie e caffè per Jess e me.
«Abbiamo tempo fino al 21 dicembre per credere in qualcosa» continuai.
«Oh, cielo» esclamò Hattie. «Hai parlato con gli avventisti? Di' la verità».
«La fine del mondo è vicina» fece Jessie con il tono di quella a cui non importa nulla.
«Oh, andiamo. Quelli sono fuori di testa».
«Comunque siamo destinati a morire tutti» disse ancora Jessie. «Se non il 21 dicembre, prima o poi».
«Mi sa di sì» fece Hattie, alzandosi per prendere il suo tè. (...)
«Io vorrei un po' di vita prima della morte» dissi.
Jessie alzò gli occhi dal computer. Harriet mi lanciò uno sguardo perplesso.
«Tutto bene, Maria?» chiese.

Tannie: letteralmente zietta. Modo rispettoso afrikaans per indicare una donna coetanea o più anziana, tradizione un po' antiquata ma ancora diffusa nelle piccole città.
Stoep: veranda particolarmente confortevole e con una spendida vista.
Vetkoek: letteralmente torta grassa, è una focaccia di pasta di pane fritta.


Piacevolissimo libro salvato da un'onda anomala di succo di arancia rossa...

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“L’assassinio di Florence Nightingale Shore”
8 giugno 2018

di Jessica Fellowes
I delitti Mitford. Sei sorelle, una vita di misteri.

Mabel si raddrizzò, quasi fosse in procinto di dire qualcosa, quando colse un movimento alle sue spalle che la fece sussultare. La porta si aprì ed entrò un giovane di ventotto, trent'anni. Portava un completo di tweed marrone chiaro e un cappello. Da quello che Florence riusciva a vedere non indossava il cappotto, come ci si sarebbe aspettati da un viaggiatore diretto sulla costa in gennaio, ma forse lo portava sul braccio e lei non l'aveva visto. Non aveva bagaglio né bastone né ombrello. Si sedette a sinistra, accanto al finestrino, diagonalmente rispetto a Florence e in senso contrario alla direzione di marcia.
Udirono il fischietto del capostazione: partenza tra cinque minuti.
Mabel si mosse verso la porta e l'uomo si alzò. «Mi permetta» disse.
«No, grazie» replicò Mabel. «Faccio da sola».
Abbassò il finestrino tirando la cinghia di pelle, si sporse fuori per girare la maniglia dello sportello e lo spinse per aprirlo. Florence rimase seduta e ignorò il compagno di viaggio; teneva un giornale posato in grembo, gli occhiali da lettura sul naso. Mabel uscì, chiuse la porta e restò sul marciapiede
a guardare dentro. Poco dopo il capotreno soffiò nel fischietto per l'ultima volta. Il treno partì, all'inizio lentamente, poi accelerò e, giunto all'altezza della prima galleria, aveva ormai raggiunto la velocità massima. Fu l'ultima volta che qualcuno vide Florence Nightingale Shore viva.

«Hai un innamorato, Lou-Lou?» chiese Nancy di punto in bianco.
«Cosa?» trasalì Louisa. «No, certo che no». Il pensiero, però, corse a Guy, e avvertì un guizzo nello stomaco.
Nancy sospirò. «Neanch'io. A parte il signor Chopper, naturalmente».
«Il signor Chopper?»
«È l'assistente del signor Bateman, l'architetto di Farve. E' un ragazzo molto serio, non mi guarderebbe neppure se mi dimenassi davanti al camino. Quando viene a casa nostra, all'ora del tè, per mostrare i progetti, rifiuta qualunque forma di distrazione. Dev'essere amore, non credi?» Nancy levò gli occhi al cielo e Louisa la imitò, poi scoppiarono a ridere entrambe.
«Farve dice che c'è scarsità di uomini, oltretutto. Forse non ci sposeremo mai e saremo le "donne di troppo" di cui parlano sempre i giornali. Porteremo calze di lana grossa e occhiali spessi e coltiveremo l'orto. Leggeremo tutto il giorno e non ci cambieremo mai d'abito per la cena, come le sorelle O'Malley».
«Forse». Louisa sorrise. Non le pareva una brutta idea.

«(...) Oh, una cosa tristissima! Tante buone azioni per finire in un modo simile... » Rosa estrasse un fazzoletto non troppo pulito dalla tasca e si asciugò gli occhi.
«Come mai conosceva la signorina Shore?» chiese Guy, con la matita sospesa a mezz'aria.
«Eravamo infermiere insieme, prima della guerra. Lavoravamo al St Thomas'. Ero un po' più giovane di lei e mi aveva preso sotto la sua protezione. Era un'ottima infermiera e coraggiosa, anche. Sa che era andata in Cina da giovane? Non è da tutti. Io non mi sono mai spinta più in là di Dieppe, e mi è bastato. Non sanno fare un tè decente, sul Continente».

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Bigatti
4 marzo 2018

Qual è il tuo profilo migliore?

Quattro (o forse otto) gatti davvero speciali ognuno con il proprio ricchissimo profilo Instagram: Narnia, Yana, Quimera e Venus.

I gatti chimera sono il frutto dell’unione di due embrioni gemelli con DNA differenti e presentano quindi due corredi cromosomici diversi all’interno delle loro cellule. Appartengono a questa categoria la maggior parte dei gatti maschi con mantello a tre colori, segno della presenza di un cromosoma x in più, mentre le gatte femmine, che ne hanno già due, presentano quel tipo di mantello anche senza alterazioni cromosomiche.



www.instagram.com/amazingnarnia
www.instagram.com/yanatwofacecat
www.instagram.com/gataquimera
www.instagram.com/venustwofacecat

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“Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini”
24 novembre 2017

di Yasmina Khadra

È uno splendido mattino, che basta a se stesso come il canto di un usignolo in un mondo di sordi; un mattino d'Algeria, illuminato dal freddo bagliore del sole di dicembre, simile a una gemma incastonata nella volta celeste, inaccessibile ai sogni contorti, alle preghiere bieche e agli Icari dalle ali tarpate.
Il cielo è di un azzurro lustrale. (...)
Sembra di sentire uno sciabordio, ma non ci sono fontane né ruscelli nei paraggi. Nel silenzio della foresta di Bainem tutto è semplice come l'acqua. E tutto è incantevole: la nebbiolina che sale dal burrone, i moscerini che volteggiano in un fascio di luce mescolandosi al pulviscolo scintillante dell'aria, la rugiada sull'erba, i fruscii della boscaglia, la fuga al rallentatore di una donnola. Viene voglia di darsi un pizzicotto. (...)
Dai rami di un salice piangente penzola un lenzuolo di seta. A mezz'asta.
Più avanti, all'ombra di una rupe, tra corone di fiori selvatici, riposa una ragazza. Nuda dalla testa ai piedi. E bella come solo una fata fuggita dalla tela di un artista sa esserlo. È semidistesa su un fianco, il viso rivolto a oriente, un braccio di traverso sul petto. Gli occhi grandi, messi in risalto dal mascara, sono aperti, lo sguardo è schermato da lunghe ciglia che devono aver suscitato innumerevoli emozioni. Mirabilmente truccata, con i capelli costellati di pagliuzze luccicanti, le mani ornate fino ai polsi da arabeschi berberi disegnati con l'henné, si direbbe che la tragedia l'abbia colta di sorpresa nel bel mezzo di un banchetto nuziale. Giace sulla sponda di un torrente asciutto, con il corpo disarticolato, ignara dei rumori che cominciano a levarsi dai cespugli, nient'affatto turbata dal contatto con la biscia che le si è appena insinuata sotto l'anca.
In questo scenario da sogno, mentre il mondo si risveglia ai propri paradossi, la Bella Addormentata ha chiuso con le favole. Ha smesso di credere al principe azzurro. Nessun bacio potrà resuscitarla.
È qui, e basta.
Affascinante e al tempo stesso spaventosa.
Come un'offerta sacrificale...

Yasmina Khadra è lo pseudonimo di Mohamed Moulessehoul, nato in Algeria nel 1956, scrittore stimato e apprezzato in tutto il mondo. Ufficiale dell’esercito algerino, reclutato a nove anni, dopo aver suscitato con i suoi primi libri la disapprovazione dei superiori ha continuato a scrivere usando come pseudonimo il nome della moglie. Dopo aver lasciato l’esercito nel 1999 ha scelto di vivere in Francia.

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“Inquietante delitto in Vaticano”
1 novembre 2017

di Flaminia P. Mancinelli

Quando lui le aveva spiegato che le catacombe dipendevano dal Vaticano ovvero dalla Pontificia Commissione per l'Archeologia Sacra, lei aveva reagito con stupore: «Ma ce n'est pas possible!... tu stai scherzando, Nicolà, non è possibile che sia il Vaticano a comandare sui ritrovamenti archeologici a Roma».
«Ho chiesto alla Vittorini di informarsi bene, ma credo che la regola - quello che tu chiami comandare - riguardi tutte le catacombe in territorio italiano».
«Toute l'Italie? Mais c'est vraiment fou!»
«No, invece, credo sia ovvio: si tratta dei primi cimiteri cristiani. In molti di questi sono stati sepolti i martiri delle persecuzioni romane. E quindi sono luoghi sacri, di cui è normale si occupi la Chiesa».
Marion si zittì, ma solo per qualche istante. Stava riflettendo. Quindi osservò: «Guarda caso, tutti - anche la Pontificia - si dimenticano di questa catacomba. La lasciano andare in rovina per anni... Giusto?»
Nicola si limitò a un cenno di assenso.
«Poi un giorno arriva un prete per fare un'ispezione alla catacomba... e dopo poco, guarda che combinazione, in quella stessa catacomba viene trovata una donna assassinata... Tu puoi pensare quello che vuoi, mon amour, ma in questo delitto il y a l'ombre du Vatican!»
«L'ombra del Vaticano?»
«Ça va sans dire...»

«Villa Ada è territorio del Comune di Roma... E allora qualcuno deve spiegarmi perché, se io ho bisogno di informazioni su quelle catacombe... Io, una carabiniera dello Stato italiano, devo farlo per la cortese intercessione di un Istituto alle dipendenze del Vaticano, di una certa Pontificia nonsocchè».
«Vuoi una sigaretta?», le chiese il tenente Serra, porgendole il pacchetto.
«No, grazie, ho smesso».
«Di nuovo? Non lo sapevo».
«Neanch'io! Sono solo cinque giorni e allora non ho fatto pubblicità, perché tanto lo so: poi ricomincerò».

«Grazie alla sua intuizione, cara Vittorini, siamo finalmente arrivati alla vittima zero del nostro serial killer», esclamò la donna, infilandosi i guanti sterili.
«Ne avete la certezza?», chiese Sara, cauta.
«Se si infila un camice e viene dentro, potrà constatarlo con i suoi occhi», la invitò la dottoressa. (...)
Il dottor Lusini era di spalle e stava scattando delle fotografie alla salma.
«Venga, sottotenente, si avvicini. Guardi qui», la disse mostrandole un punto preciso sulla schiena della donna. La pelle, rimasta sepolta per diverse settimane, era quasi del tutto putrefatta, ma nel punto indicatole dal patologo c'era una macchia rossastra.
Vincendo la repulsione, Sara si chinò a guardare e la vide.
«Se volessimo, potremmo dire che questa è la madre di tutti i tatuaggi che il serial killer ha inciso sulle donne assassinate: stessa posizione, analogo disegno», spiegò Lusini avvicinando il cono di luce della lampada. «Qui abbiamo l'originale, esattamente sotto la scapola destra. Solo che si tratta di una voglia mentre sulle vittime è un tatuaggio».
Sara arretrò di un paio di metri. «Allora è lei».
«È lei senz'altro!»

«Vedi, Sara, noi diciamo di avere un'anima, e quest'anima distingue l'essere umano e lo rende superiore agli altri animali... Ma ne siamo certi? O quell'anima che neghiamo agli altri esseri viventi, invece, in loro è molto più pura?»
Sara Vittorini cercò di seguire l'uccello nel suo indaffarato cinguettio, era alle prese con la costruzione del nido, dove a breve la sua compagna avrebbe deposto le uova, e non potè fare a meno di fermarsi a riflettere su quello che aveva appena detto Marion.

Ciao Teo...

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“Questa non è una canzone d’amore”
27 ottobre 2017

di Alessandro Robecchi

Il famoso giallo del dito...

Marino Righi è seduto su una poltrona di velluto rosso. Poltrona incongrua, un oggetto che pare fuori posto in una stanza elegante alla maniera del design nordico, legni chiari, toni neutri, tende ecru. Persino i quadri alle pareti hanno colori tenui, niente di sparato, niente che risalti. Ton sur ton, ecco, quella roba lì.
La poltrona, invece, rosso vermiglio.
Scovate l'intruso. (...)
Ora le macchie che stonano nel tripudio di bianco e beige e sfumature pastello sono due: la poltrona rossa e il cerchietto che Marino Righi ha in mezzo alla fronte, da cui cola lentamente un minuscolo rivolo di sangue, rosso anche lui.
Un proiettile calibro 22 non è molto veloce, nè devastante, ma questo non aiuta, anzi. Quando entra ha già fatto il grosso del lavoro. E se non trova una parte molle da cui uscire, rimbalza qualche decina di volte tra le ossa del cranio come una pallina da flipper tra i respingenti.
Gli special, le lucine e tutto il resto, ma non si vince niente.

«Sei una testa di cazzo».
«Apprezzo il giro di parole».
«Dico sul serio, non sono cose che si buttano dalla finestra. Ora offrono venticinque. Venticinquemila a puntata. Trentotto puntate all'anno. Per chissà quanti anni. Se vuoi ti faccio due conti».
«No». (...)
«Non ti immergeresti in un barile di merda per venticinquemila euro», dice lui.
«Sei sicuro?... Beh, ci vorrebbe un barile bello grosso», ride lei.
Una risata roca, qualcosa a metà tra un sospetto di tuono nei preamboli di un temporale e il ruggito del coguaro femmina che difende i cuccioli. Due enormi tette sobbalzano come cocomeri su un tavolo durante il terremoto, le pieghe del collo si stirano come quelle di un'iguana gigante del Borneo durante il pasto. La collana di perle segue il movimento sussultorio e tintinna.
Lei è Katia Sironi, nè più nè meno.
Katia Sironi sarebbe l'agente di questo Monterossi che sta seduto lì. Cura i suoi affari, intasca il quindici per cento di cifre che lui, senza di lei, non riuscirebbe a mettere insieme nemmeno rapinando banche; pesa, a occhio, come Tyson con in braccio Foreman, e ha quel sottile senso dell'umorismo che potreste trovare in una sala bigliardo della bassa Brianza, ma un po' più grezzo. (...)
«È un'idea del cazzo», aveva detto Katia Sironi.
Poi aveva aspirato due tonnellate d'aria alla sua maniera, tipo mantice dell'ltalsider, e aveva preso il volo:
«Così del cazzo che gli può piacere. Ma piacere tanto. Fammici lavorare un po'. Mandami tutto scritto, così come me l'hai detto. Un po' pomposo, non devo insegnarti i trucchi. Trasforma questo stronzo in un cioccolatino con la carta dorata e proviamo a venderlo».
L'aveva venduto.
Bene.
Benissimo.

Hanno trovato Marino Righi.
Morto stecchito, in casa sua, seduto in poltrona. Con un buco di calibro 22 nella fronte. Sta diventando un classico.
E con un dito nel culo.
Carino, eh?
Il dito - lo diranno le analisi, ma sono quasi sicuri - della signora Lodovica Repici, uccisa lunedì sera.
Martedì sera è toccato al Righi.
Lui era programmato per mercoledì.
Carlo Monterossi, l'Uomo Scampato Alla Morte.
Parla il sovrintendente Semproni. Il lavoro sul campo deve fargli un gran bene, perché ora sembra vivo e vegeto, non come prima che giocava alla mummia di Similaun.
«Quindi la nostra arguta deduzione è che il dito indice di Marino Righi doveva finire nel culo suo».

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Quando micio sogna di fare l’astronauta
19 luglio 2017

E' partito il conto alla rovescia...


Zaino capsula spaziale per gatti o cani di piccola taglia in vendita su Wish nei colori: giallo, marrone, rosa pallido e rosa intenso. Ma se si è disposti a cambiare leggermente modello le combinazioni di colore sono molte di più.



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“La notte ritorna” di Mary Higgins Clark
16 maggio 2017

Al parco giochi della Quindicesima Strada a Manhattan, non lontano da casa, il dottor Greg Moran spingeva il suo bambino, Timmy, sull'altalena.
«Ultimi due minuti», annunciò ridendo e dando un'altra spinta abbastanza forte da far contento il piccolo monello di tre anni, ma non tanto forte da rischiare di farlo cadere. Era una scena a cui in passato aveva spesso assistito e quando metteva Timmy su una di quelle altalene era sempre estremamente prudente. Come medico del pronto soccorso era un esperto di incidenti.
Erano le sei e mezzo di sera e l'aria si era fatta un po' pungente, a ricordargli che il successivo weekend si celebrava il Labor Day. «Ancora un minuto», disse con fermezza. Prima di portare Timmy al parco giochi, Greg era stato in servizio per dodici ore in un pronto soccorso più caotico che mai. In una gara di macchine sulla Prima Avenue i giovani che si trovavano a bordo di due auto erano rimasti coinvolti in un terribile schianto. Miracolosamente nessuno aveva perso la vita, ma tre dei ragazzi avevano riportato ferite molto gravi.
Greg staccò le mani dall'altalena in modo che rallentasse fino a fermarsi. Se Timmy non aveva tentato inutilmente di protestare significava che era pronto a tornare a casa anche lui. In ogni caso in tutto il parco giochi c'erano solo loro due.
«Dottore!»
Quando si girò, Greg si trovò faccia a faccia con un uomo di statura media, muscoloso, il viso nascosto sotto una sciarpa. Gli puntava una pistola alla testa. Con una mossa istintiva, Greg si spostò di lato per allontanarsi il più possibile da Timmy. «Senti, il portafogli è in questa tasca», disse in un tono pacato. «Prendilo pure».
«Papà».
Timmy era spaventato. Ancora sul seggiolino dell'altalena, si era girato e aveva guardato lo sconosciuto negli occhi.
Nei suoi ultimi istanti di vita, Greg Moran, trentaquattro anni, medico apprezzato, marito e padre affettuoso, cercò di lanciarsi sul suo aggressore, ma non poté in alcun modo sottrarsi al colpo fatale che lo raggiunse con micidiale precisione al centro della fronte.
«PAPÀÀÀÀÀÀÀ!» strillò Timmy.
L'assassino corse verso la strada, poi si fermò e si voltò. «Timmy», gridò, «di' a tua madre che adesso tocca a lei. Poi sarà il tuo turno».
Margy Bless, un'anziana signora che stava tornando a casa dalla panetteria del quartiere dove lavorava part-time, udì il colpo di pistola e le minacce. Restò immobile per alcuni lunghi secondi come per capacitarsi della scena spaventosa di cui era stata testimone: l'uomo che scompariva correndo dietro l'angolo con la pistola ancora in pugno, il bambino che urlava sull'altalena, l'altro uomo accasciato al suolo.
Le tremavano così forte le mani che le ci vollero tre tentativi prima di riuscire a digitare il 911.
All'operatrice che rispose, Margy riuscì solo a balbettare: «Presto! Presto! Potrebbe tornare! Ha ucciso un uomo e poi ha minacciato il bambino!»
La voce le morì in gola mentre Timmy si metteva a gridare: «Occhi Blu ha ucciso il mio papà... Occhi Blu ha ucciso il mio papà!»

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